Gli italiani hanno venduto ordigni antiuomo per decenni, in tutto il mondo. Moltissimi sono ancora lì, pronti a scoppiare. Ora nel nostro esercito c'è chi si specializza a toglierli. E spesso sono ragazze in divisa

Fino a qualche anno fa, l'Italia portava l'infame medaglia di essere la prima nazione al mondo per la produzione di mine antiuomo, le più numerose e sofisticate. Stando almeno ai dati ufficiali, dal 1994, anno della moratoria, abbiamo smesso di produrne. Ma considerato che una mina può "vivere" 50-60 anni dopo essere stata piazzata, il mondo è ancora pieno di ordigni italiani.

Nel 2010 nei documenti riservati della Difesa Usa pubblicati dal sito WikiLeaks, si spiega che in Afghanistan molti esplosivi «sono ricavati usando mine anti-carro di produzione italiana e che, almeno in un caso documentato, hanno ferito militari italiani a bordo di un Lince» italiano.

Nel 1982, 'anno d'oro', la Valsella vendette all'Iraq mine per 79,5 miliardi di lire, l'anno dopo per 65,7 miliardi.

I conflitti armati hanno lasciato circa 110 milioni di mine sparse sul territorio di 64 diversi paesi del Pianeta. Ogni anno feriscono e uccidono più di centomila adulti e ventimila bambini.

Il paradosso è che l'Italia esporta, - per fortuna ancora oggi – pure gli sminatori. I nostri esperti nel trovare e rendere innocue le mine sono tra i più richiesti al mondo. Spesso si ritrovano nei luoghi più diversi del Paese a dover trattare mine italiane.

Roberta Guzzardo ha 23 anni, è siciliana ed è un caporal maggiore. A 19 anni ha deciso di entrare nell'esercito e di specializzarsi come sminatrice. Per la sua prima missione è stata nel sud del Libano, a Shama, a sminare la Blue Line al confine con Israele.

Quando lavora è talmente bardata da non poterla riconoscere che dalle braccia esili. Se le chiedi che lavoro fa, risponde "guastatore Minex". Sorridi, pensi a un tremendo attrezzo da cucina. In Italia guadagna 950 euro al mese, in Libano 130 al giorno.

Roberta procede lentamente sul terreno. Segue il tragitto che gli è stato assegnato. Si va avanti soprattutto accovacciati o in ginocchio. Il casco, la tuta, le forbici per tagliare le erbacce fitte, il metal detector, sperando che la bomba non sia di plastica, il sondino per sentire se un centimetro più in là si salta in aria. Sotto i guanti unghie corte e un anello di fidanzamento. «La prima che ho trovato è stata indimenticabile. Un'emozione fortissima vederla brillare. Ogni mina è una vita salvata».

Negli ultimi tre mesi, gli specialisti del 4° Reggimento genio guastatori di Palermo hanno bonificato 2.000 metri quadrati di terreno. In Libano dal 2006, secondo le Nazioni Unite, le bombe hanno ucciso 46 persone e mutilato oltre 300 civili.

Il generale Gualtiero De Cicco racconta: «Abbiamo iniziato nel 2009 a rimuovere le mine, centimetro dopo centimetro siamo riusciti a bonificare un'area grande quanto dodici campi di calcio. Mine targate Israele e piazzate tra gli anni Settanta e Ottanta. L'ultimo team era composto da 24 sminatori di cui 5 donne».

Roberta e le sue quattro colleghe, amiche, hanno tutte tra i venti e i venticinque anni. Sono state quasi sette mesi in Libano, di cui tre in ginocchio, sotto il sole estivo, a cercare mine assieme ai loro commilitoni.

Un'attività che alla lunga risulterà utile anche a chi vive nella zona, ma bisogna specificare che militari come loro non lavorano per la popolazione ma per il contingente,: insomma bonificano il territorio in cui hanno bisogno di operare le forze armate. La bonifica umanitaria viene invece fatta da organizzazioni non governative. «E' famosa ad esempio l'Humanitaran demining group i cui membri prima facevano parte dell'esercito italiano», spiega Giuseppe Schiavello, direttore della campagna italiana contro le mine «Qui nasce l'idea del double dipping: prima guadagnavano perché le vantavano e vendevano in tutto il mondo, ora guadagnano per toglierle...».

L'edicola

Voglia di nucleare - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 28 marzo, è disponibile in edicola e in app