Il maggior timore è la pubblicità di tutto quello che ormai gli accade. Non avrebbe mai pensato "di dover parlare tanto, spiegare tutto". Nella Bassa Bresciana le parole sono un risparmio da tenere custodito in privato, sottratto alla corruzione quotidiana. "La popolarità ancora m'imbarazza e mi piace che sia così. Ma è giusto interpretare un ruolo, è senso di responsabilità. Prima, nei club, mi preoccupavo di farmi capire da una città, da una tifoseria. Adesso sento il dovere di essere inteso da Palermo a Milano. Ci provo e non sempre credo di riuscirci".
I suoi occhi sono grandi, s'inarcano spesso, appena pensierosi. Quando Cesare Prandelli sorride, il volto lo segue, e si ruga. Nel suo spoglio ufficio nella sede della Federcalcio è in gessato blu. Bisogna capire perché la sua Nazionale vince, diverte, piace. E perché su quella accogliente panchina in cui siedono 58 milioni di commissari tecnici (lo siamo un po' tutti) adesso sembra esserci posto solo per lui. Ma è un discorso lungo. Dice che bisogna attraversare la vita cercando di amare. "Di vederlo, l'amore. Di toccarlo, perché l'amore va abbracciato".
Così Prandelli (che nel 1957 all'anagrafe di Orzinuovi fu registrato come Claudio, e così compare nell'album delle figurine Panini) un giorno di ogni settimana raduna la sua famiglia a Orzinuovi, dove i Prandelli prima di lui hanno vissuto, lavorato, amato. Il figlio grande – Nicolò – arriva da Parma, e la figlia minore, Carolina, viene con il fidanzato. Con Nicolò e la moglie Veronica c'è anche Manuela, nata 5 mesi fa, "e io ho fatto un patto con i genitori: lasciatemela viziare quanto mi pare, sono un costretto a viverle lontano". La piccola Manuela, che si chiama come la madre di Nicolò, morta di cancro 4 anni fa, non è l'unica persona nuova nella famiglia. C'è anche Novella Benini, la compagna di Cesare.
Ha temuto che questo nuovo amore complicasse il rapporto con i figli?
"Il nostro obiettivo è la felicità. E va solidamente costruita. Non possiamo lesinare parole. Darle per scontare. Ho detto loro che non avrebbero perso un padre ma avrebbero avuto accanto un uomo arricchito: ho incontrato una persona che mi ha infuso la voglia di riprovarci, di misurarmi con gli impegni, la pienezza e le gioie dell'amore. Senza non posso vivere".
Porta ancora la fede.
"Questa è mia, è nostra: della storia d'amore fra me e Manuela. Che non svanisce, non può".
Là a Orzinuovi dove v'incontrate?
"Nella nostra casa. La solita, da sempre. L'ho ristrutturata, c'è un cavedio e intorno le stanze, la luce entra da fuori e da dentro"
Il calcio come arrivò?
"Era a due metri da casa. Un salto, di là dalla strada. Un muro basso che nascondeva il campo di calcio dell'oratorio, ma se hai voglia di giocare quel salto lo fai. Quando capivi in fretta che ci sapevi fare, il problema diventava venire via dal campo".
Lei è diventato un uomo condiviso in uno sport (un Paese) di tifoserie e rivalità.
"Penso che la gente apprezzi la mia normalità. La misura, la serietà, anche. È un complimento che ricevo spesso, credo ci sia sostanza. Non ho mai avuto atteggiamenti per farmi notare".
La sua normalità in uno spaccato anormale, smisurato, sputtanato.
"Le scommesse mi mettono addosso tristezza. Una partita finisce condizionata da appetiti criminali che partono dall'altra parte del mondo e arrivano dentro gli spogliatoi. È pazzesco non avere difese, lasciar passere questo buio".
Una parte del marcio è affiorata grazie a un comportamento "normale".
"Per questo ho chiamato il giocatore del Gubbio, Simone Farina, a Coverciano. Merita di respirare l'aria della Nazionale. Sono importanti la normalità, la serietà. È una buona storia per ricominciare".
È la crisi di un Paese intero, il calcio non è un'isola.
"Il comportamento di una comunità, di uno Stato, lo fanno le persone. La loro etica e la loro morale. Questi sono i dirigenti che abbiamo. Io parlo di calcio, perché l'ho vissuto. Serve l'esempio, la capacità di negarsi davanti ai comportamenti scivolosi. Quando giocavo e poi allenavo all'Atalanta non si organizzavano scommesse. Il direttore era Giacomo Randazzo. Ti guardava negli occhi, capivi che era un "No, non si può fare". Avevamo timore a chiedergli un biglietto per gli amici, un favore, una concessione. Il contegno di una classe dirigente è fondamentale".
L'Italia è in buone mani?
"Lo spero. È un momento decisivo. Ho una stima e un'ammirazione smisurata per Napolitano. Questo governo trasmette serietà perché incarna la volontà del Capo dello Stato. Mi piace che abbia preso in mano la situazione, mi fido di quelle mani. E per una volta dobbiamo essere disponibili, prima ancora che polemici. Ma questo è un Paese che vive di commenti, non di fatti".
Difficile chiedere disponibilità a un pensionato, o a un professore precario. Lei si è sbilanciato: il mondo del calcio non si tiri indietro.
"Chi ha di più, deve pagare di più. A Firenze dicono: bisogna frugarsi. Quando dissi che eravamo privilegiati, e che ci toccava una parte maggiore, nello spogliatoio erano d'accordo. Sono ragazzi più sensibili di quello che vogliamo facilmente credere. Però non siamo noi lo scandalo".
Dov'è il peccato?
"Non possono pagare sempre i soliti. Quando facevo il calciatore guadagnavo molto, e comparivo sempre ai primi posti della classifica dei redditi della provincia di Brescia. Ma molti erano più ricchi di me. Avevano fabbriche, proprietà sconfinate, ovunque, ma in classifica non li vedevo. Nei momenti di crisi l'evasione fiscale è ancora più inaccettabile, e in giro ce n'è tanta, a tutti i livelli. Dai grandi guadagni nascosti all'estero ai piccoli lavori mai fatturati. Scarseggia il senso civico".
Oltre a Napolitano, quali altri politici ha apprezzato?
"Avevo lo stesso trasporto per Pertini. Lo stesso modo di sentirmi rincuorato. In Napolitano ci ritrovo la stessa combattiva voglia costruttiva".
Due persone anziane, che anche da questa "innocua" anagrafe hanno tratto simpatie e consenso. E due persone per ruolo sopra la mischia. E sotto?
"Mi piace Renzi, il sindaco della città dove vivo. Ha idee, e la passione e la determinazione per perseguirle. Sa ascoltare le persone e considerarle nelle decisioni, questa è una qualità che non tutti i politici dimostrano di avere. Come ogni amministratore, sarà possibile misurarlo con i fatti".
Napolitano ha 86 anni, Renzi 36: nel mezzo?
"Lo stato dell'Italia è sotto gli occhi di tutti".
Lei è popolare e riscuote consenso. Se non avesse fatto il calciatore avrebbe potuto fare il politico...
"No. Avrei fatto l'architetto. Ci avrei provato, per lo stesso motivo per cui ho provato a giocare a calcio. Per la curiosità, perché avrei saputo amare quel lavoro, studiarlo con passione. Ho facilità di visualizzazione. Mi piace immaginare cosa fare dal nulla. O come trasformare il tutto. Anche oggi, quando parlo mi scopro a disegnare, schizzare idee. È una forma d'arte, c'è la fantasia, l'esigenza di solidità, c'è l'idea, c'è la possibilità di appagare una pulsione umana, come il disegno, e sposarla alla praticità: come pensare lo spazio, le forme, il movimento delle persone che ne faranno uso e in tempi diversi. Immagino ponti e grandi strutture".
La Nazionale è la sua costruzione. Prima di lei Lippi l'aveva "fortificata" e opposta al resto del mondo, e così cercava il meglio dai suoi. Le scelte ne riflettevano la chiusura: Cassano no, è antipatico. Balotelli è maleducato... Adesso la sua squadra cerca e trova gradimento, si mostra a tutti, anche a Rizziconi, nel terreno confiscato alla 'ndrangheta.
"L'obiettivo è un progetto di squadra, una ricerca di gioco e di interpreti. Il percorso comincia dai giocatori: i più bravi, i più tecnici. Dunque Cassano e Balotelli ci sono, ci saranno. Così come i centrocampisti di qualità, che sono forti. Poi serve un'organizzazione di gioco per tenerli insieme: adesso rinunciamo agli esterni, per non privarci di una mezz'ala. Nei primi sei mesi ho visto molti calciatori, poi ho scelto. Loro devono giocare a calcio, diventare squadra. Così saranno un gruppo, che è un modo di aggiungere qualcosa al valore tecnico di una squadra. Non si parte dal gruppo: ci si arriva, e succede in campo. Altrimenti è chiusura, paura, perdita di possibilità".
Che ha detto a Balotelli?
"Ho solo una frase da spendere, con ogni giovane giocatore che mi pare avere capacità: gli consiglio d'investire su se stesso. Di lavorare per migliorarsi come atleta, di coltivarsi come persona. Se invece mirerà solo a un buon contratto, non durerà"
Parlava del centrocampo, ricco di qualità.
"Quando cominciai ad allenare le giovanili dell'Atalanta, presi il trequartista e lo misi davanti alla difesa. Tu "senti" il gioco - gli dissi - ti sarà semplice intuire anche lo sviluppo della manovra avversaria, contrastarla. E ci farai ripartire con i tempi e i passaggi giusti. Quel giocatore era Alessio Tacchinardi. A centrocampo si fa la partita, si "vede" e si propone calcio: non è un caso che la maggior parte degli allenatori arrivano da quei ruoli...".
Dopo tanti anni cosa le piace ancora del calcio?
"Il campo. Il prato, i tre centimetri d'erba. Le porte, in fondo: bisogna arrivare là, fare gol. È tutto qui. Quando smetterò di allenare, mi mancherà il campo. Il resto, no".
Cosa è cambiato?
"Era diverso. Finivamo la partita e i giornalisti bazzicavano lo spogliatoio. Costruivamo rapporti veri, ci fermavamo per un caffè. Calciatori, dirigenti, giornalisti, tifosi: i "mondi" intorno al calcio s'incontravano, si confondevano. Poi questo spaccato pieno di soldi si è popolato di molte persone nuove, e ogni ruolo voleva il suo boccone di torta. I vantaggi di una parte contrapposti a quelli dell'altra. Il calcio è diventato un veicolo dove ognuno è salito per fare i propri interessi".
Tre ricordi.
"Tre persone: Gianni Rivera, il più forte di tutti. Era il calcio: classe, visione di gioco, eleganza, altruismo. Tutto diventava semplice, logico. Poi Gaetano Scirea, e quella personalità forte e sobria. Arrivava con gli occhi, non aveva bisogno di parlare. Il terzo è Michel Platini. Racconto spesso questa storia, per far capire chi era: negli allenamenti si vantava della sua bravura. Lo provocai: quando giocavo a Cremona, gli dissi, avevo un compagno che faceva gol tirando da dietro la porta, con l'effetto a rientrare. Era Emiliano Mondonico. Allora vidi Platini che cominciò a provarci, ma non ci riusciva. E s'innervosiva. Poi mi fece mettere una porticina di 40 cm, distante 50 metri: calciò da così lontano. Segnò. E disse: vallo a raccontare al tuo amico di Cremona".
C'è molta Juventus, ovviamente, nel suo bagaglio. È tornata grande. Può vincere?
"La squadra è forte. Il progetto è vero, condiviso. L'allenatore è stato scelto e assecondato dalla società per la sua identità precisa di gioco. Molto agonismo, molto attacco. E poi hanno lo stadio nuovo. Queste sono opere virtuose per una società di calcio, valgono punti in classifica. Per essere competitivi lo stadio di proprietà fa la differenza. Me ne sono accorto viaggiando, in Inghilterra".
Cosa c'è di più?
"La loro cultura dello sport, per dirla bene. Non siamo lontani, ma quel poco da fare è un passo avanti, deciso. Petrucci ha messo intorno a un tavolo i proprietari della maggiori società di calcio, e la Federazione, per trovare una civile riconciliazione per una vicenda, Calciopoli, che non è ancora cenere..."
Perseguitati dal passato.
"Eppure l'iniziativa è giusta, importante, anche se il risultato massimo dovesse essere una civile "lontananza". Calciopoli non può trovare un finale concordato. Però quel tavolo può essere l'inizio per guardare avanti. Agli stadi, anzitutto: comodi, coperti, senza barriere. Bisogna avere ambizione e coraggio, il risultato sarà bellissimo: là in Inghilterra la partita era un pezzo di una giornata di festa. L'afflusso facile, e così il ritorno a casa. Due ore da passare insieme dentro una giornata libera. In Italia la partita diventa "troppo". È caricata di tensione. Non è più uno spettacolo ma una resa dei conti. E servono ore per affluire allo stadio e altrettante per tornarsene a casa. Magari bagnati, se quel giorno pioveva".
Cosa farebbe che non riesce a fare?
"Giocherei a golf. Cominciai dopo l'esonero a Venezia, dieci anni fa, per distrarmi dallo sconforto. C'è la bellezza del natura, e di uno sport che sfoga la parte sana della competitività, anzitutto con se stessi, senza l'alibi dell'avversario, dell'arbitro, del terreno di gioco. Sei tu che devi valutare il vento, misurare la distanza. È una sfida sublime e buca dopo buca, ci veste della stoffa con cui siamo fatti. Comincia a venire fuori la natura, qualunque sia. L'invidia o l'altruismo, la pazienza, lo spessore o la vanità. Quello che non sa perdere e dunque nemmeno gareggiare. Quello che sa vincere. In fondo, quello che siamo".
Tornerebbe indietro, ad una vita più "piccola", più sua?
"Ci penso tutti giorni. È un attimo, ma ci penso".
Dai soliti amici.
"Sono affascinato dalle amicizie che durano. L'amicizia è una forma d'amore che mi commuove. C'è un libro che ho adorato, Le braci, di Sandor Marai: quarantuno anni è il tempo sospeso fra i due amici del libro. Le braci non sono più fuoco, ma conservano il calore, la memoria. Ho gli stessi amici da sempre. Qualcuno se n'è aggiunto. Ma il mio gruppo di orcesi (abitanti di Orzinuovi, ndr) è sempre lì, unito".
Che fanno?
"I soliti mestieri, chi il venditore ambulante, chi vende i formaggi. Menèc (Domenico), Tara (Nevio, che produce quel vecchio formaggio con la muffa detto – appunto – Tara). E poi Tone. Ho il senso di colpa di frequentarli poco, e la fierezza di ritrovarli tali e quali".
Cesare invece era Spuma.
"Nei Paesi il soprannome ti arriva da lontano. Mi cadde addosso perché mio padre Gianni faceva il mestiere di nonno, il vecchio Cesare: il gassosaio. Nella piccola fabbrica di Orzinuovi, accanto alla casa, si faceva la Big Drink, la "Grande Bevuta", e anche le altre spume, di tutti i tipi, bionda, al cedro, scura. Da ragazzo ho fatto il garzone e le ho consegnate ai clienti della zona. Grazie ai soprannomi siamo sempre noi, gli stessi. Calciatori e ambulanti. Anche se il mio ruolo di ct li ha un po' spaventati... l'ultima volta che ci siamo visti a cena sembrava un vertice del G8, tutti seri".
Racconti quella partita, quando il gruppo di amici della Bassa scoprì il calcio "totale".
"Avevamo sentito parlare dell'Olanda dove a un certo punto i difensori salivano, insieme, lasciando gli attaccanti avversari in fuorigioco. Invece di rincorrerli, recuperavano palla con un movimento. Decidemmo di tradurre quella tattica in un torneo estivo. Menèc recitò la parte di Ruud Krol e gridò a pieni polmoni: "Foraaaa!". Chiamò la repentina salita dei compagni, ci muovemmo, tutti meno uno: Menèc. Gli avversari andarono comodamente in rete. Menèc era soddisfatto e ci disse: ragazzi, volevo controllare se mi avreste obbedito, così la prossima volta sono sicuro".
Attualità
28 dicembre, 2011«Questo sport è diventato un veicolo dove tutti saltano a bordo per mangiarsi una fetta di torta». «Le scommesse? Servono dirigenti che diano l'esempio, che ti convincano a dire no». «Quando smetterò rimpiangerò solo il campo: il resto no». Parla il ct della Nazionale
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