«Il merito non viene premiato, la ricerca non viene valorizzata e a guardare il Paese che abbiamo lasciato viene la depressione». Parlano i prof universitari che sono andati all'estero. E che a casa vengono solo per le vacanze

Vorrei tornare, poi guardo e mi viene la depressione. La riforma Gelmini mi dà qualche speranza in più. Ma qui l'ambiente è più brillante perché i ricercatori bravi sono concentrati in pochi centri e mi diverto a fare il mio lavoro". Matteo Barigozzi ha 35 anni. Milanese, ha fatto sette traslochi tra l'Europa e gli Usa. Ora è a Londra: un contratto tre più tre da ricercatore e assistente professore nel dipartimento di Statistica alla London School of Economics. Un cervello in fuga. O meglio, in movimento. Perché i cervelli si muovono per natura; il problema è quando dall'Italia vanno via e basta. Servirà la riforma a fermarne la fuga?

Per l'economista Luigi Zingales ("L'espresso", n. 5) "fa enormi passi in avanti nel contesto della realtà italiana": entro un certo numero di anni i ricercatori devono o essere promossi o licenziati (il meccanismo chiamato "up or out"); viene introdotta una differenziazione di stipendio basata sul merito; viene migliorata la governance (limite di mandato al rettore, distinzione tra responsabilità didattiche e amministrative). "L'espresso" ha chiesto ad alcuni ricercatori e professori italiani da anni all'estero cosa ne pensano della riforma e se rientrerebbero in Italia: è un buon segnale, hanno risposto, ma per ora non torneranno. Troppe ancora le criticità del sistema. Leggi: difficoltà di fare carriera, stipendi più bassi e ingerenza della politica.

"Gli spunti della Gelmini di ispirazione anglosassone", dice Alessandro Olivi, 57enne professore e vicepresidente del dipartimento di Neurochirurgia alla Johns Hopkins University di Baltimora, "potrebbero trovare difficile applicazione se inseriti nella cultura italiana: io sono andato via da un ambiente che non coltivava i giovani e chi aveva voglia di produrre e dove non c'era sincronia tra la carriera e l'età biologica". Gianluca Manzo ha 32 anni, è ricercatore al Cnrs a Parigi e docente alla Sorbona e ha già rifiutato nel 2009 un posto in Italia come professore associato. Ricorda positivamente l'esperienza di insegnamento in Italia, ma precisa: "Entrai al Cnrs quando avevo 29 anni: in Italia, sarebbe impossibile occupare una posizione permanente così giovane".

Andiamo a Londra. "Sapevo che non sarei stata neanche presa in considerazione per i concorsi da ricercatore. Semplicemente perché ero giovane. In Italia chi ha aspettato più a lungo ha più diritto di entrare", racconta Serena Ferente, 31 enne medievista al King's College di Londra che ha lasciato l'Italia nel 2006. Poi c'è il salto ad ostacoli tra parenti e allievi prediletti. La riforma Gelmini cerca di correre ai ripari: non potranno partecipare ai procedimenti per la chiamata a professore di ruolo e associato coloro che hanno un grado di parentela o affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore dell'ateneo (o rettore, o direttore generale o componente del cda). "È positiva perché diminuisce la capacità di piazzare regolarmente la propria progenie, ma non è a prova di bomba: il figlio di un professore a Roma potrà sempre essere assunto da un altro professore a Firenze", dice Enrico Benedetti, partito nel 1989 da Firenze, l'inglese parlato a fatica ("Venivo da una famiglia di insegnanti e non avevo familiari autorevoli nel campo, all'epoca non avevo chance"). In 16 anni è diventato capo dipartimento di Chirurgia dell'Università dell'Illinois a Chicago.

C'è poi la novità dell'abilitazione nazionale per accedere alla cattedra: un primo alt a chi non ha nemmeno i requisiti minimi. "Ma rimane il problema che il posto è bandito dallo stesso ateneo che deve beneficiarne e che giudica chi deve averlo", dice dalla Francia Manzo. Il risultato? La carriera in Italia rimane un grosso punto di domanda. "Mi piacerebbe molto tornare in Italia, ma la riforma non lo permette ancora", osserva anche Salvatore De Vincenzo, 38 enne archeologo napoletano trapiantato da diversi anni in Germania: "Il sistema rimane troppo incerto. Non me la sento di abbandonare una carriera meritocratica più sicura e perdere i contatti con le istituzioni che mi stanno appoggiando". In Germania, oltre alle norme anti-parenti, non è possibile partecipare a un concorso bandito dalla stessa università in cui si lavora già. Il che significa: allievi prediletti fuori gioco e vinca il migliore. Il segreto è tutto qui: vogliono fortemente i migliori perché parte delle risorse ai dipartimenti dipende dalla qualità nella ricerca. In questo senso la riforma Gelmini innalza i finanziamenti distribuiti in base alla produttività. Ma è sui criteri di valutazione che rimangono le perplessità.

"In Italia", dice Ferente da Londra, "la valutazione riguarda l'intero ateneo invece che il singolo dipartimento. E vengono presi in considerazione elementi anche non strettamente connessi alla qualità della ricerca". Per Zingales, però, lo sforzo per premiare il merito nella riforma non manca: il meccanismo "up or out" impone che i ricercatori bravi vengano assunti, mentre gli altri licenziati. Eppure per alcuni le trappole sono dietro l'angolo: a fronte di posizioni a tempo determinato non viene creata la garanzia che ci saranno posti per i migliori. "Negli Usa", ribatte a Zingales un lettore sul sito de "L'espresso", "l'università stabilisce quali obiettivi il ricercatore deve raggiungere per la promozione a professore, e se li raggiunge è vincolata a promuoverlo". Non così in Italia. Anzi, il timore di molti è che poi manchino i fondi per assorbire il personale più preparato. Per Michele Boldrin, a capo del dipartimento di Economia della Washington University a Saint Louis, "il problema è che la riforma è fortemente incompleta". Due le cose fondamentali che mancano: ogni università deve essere indipendente, la formula è una fondazione con un board che si auto-amministra; bisogna togliere valore legale al titolo di studio e cambiare lo stato giuridico dei professori: non dipendenti pubblici ma dell'università per cui lavorano. Questo permetterebbe di eliminare gli scatti di anzianità che ora ingessano l'intera carriera a prescindere dalla produttività. Io, da direttore di dipartimento, ad alcuni colleghi che non lavorano lo stipendio lo taglio".

Negli Usa e altrove gli stipendi sono mediamente superiori a quelli italiani. La riforma ha comunque il merito di introdurre una differenziazione di retribuzione basata sul merito e non sull'anzianità. Ma agirà solo sugli aumenti di stipendio e quindi avrà effetti limitati. E così, per i giovani, il problema dell'arrivare a fine mese non si risolverà rapidamente: "Uno stipendio da ricercatore in Italia sarebbe la metà", riprende Ferente da Londra: "Non vivo come una nababba, Londra è cara, ma ho una sicurezza e posso farmi un mutuo e comprare casa". Per un giovane ricercatore all'estero lo stipendio medio si aggira intorno ai 2.400 euro.

Maurizio Isabella, docente di Storia moderna alla Queen Mary di Londra, ha 42 anni, è via da 17, e neanche lui tornerà in Italia: "Qui sono migliori le infrastrutture e l'ambiente. In Italia c'è anche un problema generazionale: i ricercatori della mia età o sono senza lavoro o guadagnano meno di 2 mila euro senza aver fatto la mia carriera, pur essendo molti in gamba. Io guadagno circa 3 mila euro. Un livello che, se fossi in Italia, raggiungerei tra molti anni. Certo, qui se il dipartimento è in difficoltà finanziaria ti licenzia. Ma proprio per questo l'unico criterio che conta è quello dell'eccellenza".

Che non sia solo questione di soldi lo fa notare anche Benedetti, il chirurgo di Chicago: "Quattro anni fa sono stato chiamato dal direttore di un ospedale di Milano. Ho chiesto qual era la gerarchia, e mi è stato detto che in Italia già il primario è di nomina politica, mentre negli Usa la politica non esercita un potere così diretto. E un eventuale cambio di direzione politica potrebbe influenzare negativamente il mio lavoro".

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