Dopo l'arresto per le calunnie a De Gennaro, cerchiamo di capire veramente chi è e che credibilità può avere il figlio del sindaco mafioso di Palermo negli anni Settanta
di Lirio Abbate
21 aprile 2011
Totò Riina non ha dubbi: "Se io sono il capo della mafia, lui queste rivelazioni le sta facendo per i soldi". Piccioli, bugie e vere trame: questa è la chiave del mistero Ciancimino. Massimo Ciancimino, oggi ancora più famoso di don Vito, perché fa il dichiarante: imita il padre, grande puparo di Palermo, per costruire la sua rappresentazione della mafia. "Non voglio rinnegare la mia identità: sono figlio di un personaggio che è sicuramente inutile che io cerchi di difendere".
Lui crede di essere l'angelo vendicatore che si abbatte sui mafiosi e i loro complici. Ma talvolta si definisce "un pirla". Per il presidente del Consiglio e i suoi parlamentari è solo un volgare bugiardo. Alcuni pm lo ritengono un calunniatore, altri un asso da giocare nella guerra contro Cosa nostra. I più diffidenti sulla genuinità dei suoi racconti alludono a incoffessati interessi che starebbe difendendo con il polverone sollevato dalle sue dichiarazioni: un tesoro nascosto o vendetta familiare per le inchieste subite dal padre? Lui ama molto la ribalta, giudiziaria o televisiva che sia, e la sfrutta per dare forza alle sue parole: sa quanto vale una lacrima ripresa dalle telecamere. Ma chi è davvero Massimo Ciancimino?
Per capirlo bisogna partire dal principio, da quel 19 novembre 2002 quando finisce sotto accusa per riciclaggio. Un giorno che segna contemporaneamente la sua iscrizione nel registro degli indagati della procura di Palermo e la morte di Vito Ciancimino, il politico corleonese amico di Bernardo Provenzano che per oltre trent'anni ha tenuto in pugno la Dc siciliana e la città di Palermo. Sindaco per 11 giorni e assessore comunale ai Lavori pubblici per un decennio. Un lungo incarico che gli è bastato per accumulare un tesoro illegale nascosto all'estero: soldi ottenuti sfregiando il tessuto urbanistico della città, saccheggiata e aggredita dalla violenza del cemento scaricato dagli imprenditori amici di don Vito e dei corleonesi.
Massimo Ciancimino trasforma i vecchi risparmi del padre in nuovi business. È un uomo che guarda al futuro, utilizzando prestanome in società che puntano all'energia e ai rifiuti, in Russia e Romania. È molto sveglio Massimo anche se l'ultimo dei cinque fratelli è l'unico a non essersi laureato. Per la sua bassa statura i familiari lo chiamano "nano". In casa era il più scapestrato e il padre per punirlo lo legava con una catena, lunga quanto bastava per raggiungere il bagno. Ne combinava di tutti i colori, al punto da rubare un assegno dalla scrivania paterna: falsificando la firma lo aveva utilizzato per comprarsi una moto. La banca si stupì dell'emissione di quell'assegno, conoscendo la tirchieria di don Vito e lo chiamò, sventando la bravata. Più tardi il "nano" ha iniziato a frequentare Cortina e lì nel 2001 ha conosciuto sua moglie Carlotta, una bella donna di Bologna, ricca e abituata ad avere ogni cosa. All'inizio non lo guardava nemmeno: lei stava con l'erede di un grande industriale del caffè, un giovane ricco, alto ed elegante. "Ecco, lei era messa così, mentre io per i miei stessi fratelli ero e continuo a essere semplicemente "nano"". Alla fine è riuscito a conquistarla. E a farci un figlio: Vito Andrea.
Il giovanotto viziato con la passione per le Ferrari, le feste a Cortina e i "piccioli" in quegli anni dichiarava al fisco una media di 70 mila euro di reddito. Ma nessuno fino ad allora si era chiesto come facesse ad avere un tenore di vita così alto. Non se lo chiedevano i politici come Gianfranco Micciché e Angelino Alfano che frequentava. O quelli che portava sulla sua mega barca.
Il tesoro. Nessuno si chiedeva come faceva a vivere nel lusso più sfrenato un uomo che ufficialmente vendeva divani. C'è voluta un'inchiesta della procura e le indagini condotte da carabinieri e finanzieri per disseppellire una parte del tesoro. Indagine che ha portato alla condanna di Massimo Ciancimino a 5 anni e 8 mesi, ridotta in appello a tre anni e quattro mesi per riciclaggio. E alla confisca di beni da 60 milioni di euro. Una minima parte, sostengono gli inquirenti, rispetto al patrimonio che sarebbe rimasto al sicuro. E sono ancora tante le società riconducibili a Massimo, individuate dall'amministratore giudiziario che gestisce i beni. Tutte segnalate alla procura di Palermo che potrebbe chiedere un nuovo sequestro. Nel 2008 la caverna di Alì Babà rischia di sparire: parte la procedura per una misura di prevenzione personale, una bomba atomica che potrebbe cancellare tutto quello che aveva accumulato illegalmente. Ma non è mai stata sganciata. E intanto il "nano" si è inventato una nuova vita.
Il metodo. Il giovane Ciancimino usa i media e ne fa strumento processuale. Sin dall'inizio sfrutta i giornali e la tv per far entrare le sue parole nelle indagini. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, sostiene che il problema del dichiarante "è quello di parlare troppo, preferibilmente con i giornalisti, specie dei suoi interrogatori, per i quali è tenuto a rispettare la segretezza. Un imputato-testimone che scrive libri imbastiti con il contenuto delle sue dichiarazioni. È molto americano Massimo Ciancimino, uomo dei media e per i media, nel bene e nel male".
I pm decidono di sentirlo per la prima volta dopo che riesce a farsi intervistare da un settimanale e raccontare delle stragi e degli incontri di Provenzano con suo padre. È il 2008 e il rampollo conferma l'esistenza del "papello", la richiesta che Riina avrebbe fatto allo Stato in favore della mafia per far cessare le stragi e l'esistenza di una trattativa. Da quel momento i pm di Palermo non lo mollano più. Gli interrogatori si ripetono, e ad ogni incontro il dichiarante consegna sempre un documento, un pizzino, una lettera del padre. Un'informazione a rate. Parla così tanto davanti ai magistrati che sembra un fiume in piena. Un fiume strartipante da cui stare attenti perché non sempre porta acqua buona. E poi è un toccasana per i giornalisti ai quali riversa, senza remore e pregiudizi, tutto quello che teoricamente dovrebbe restare segreto. Ma questo non è affare dei cronisti, che spesso in lui hanno trovato una sorgente di notizie. Il giornalista che ha una notizia la pubblica. A volte si rivelano fondate, a volte no.
La cabala del 47. In molti verbali, forse in quasi tutti, Massimo Ciancimino fa parlare sempre e solo un morto: suo padre. Il rampollo dice di odiarlo, ma alla sua figura sembra ancora oggi legatissimo. Massimo ha vissuto fianco a fianco con l'ex sindaco, fino alla sua morte avenuta in un appartamento alle spalle di piazza di Spagna a Roma. Quello che di solito in Sicilia è un compito che viene demandato tradizionalmente alle figlie di prendersi cura dei genitori, in questo caso è toccato a lui.
Ed ecco che il "nano" diventa custode testamentario degli scheletri paterni. E li mette a verbale. I soldi sporchi arrivati da Palermo per costruire Milano 2. I latitanti mai presi. Le richieste di Provenzano a Berlusconi fatte attraverso lettere ritrovate nell'archivio di don Vito. La nascita di Forza Italia voluta da una trattativa fra mafia e Stato. Un assegno al padre firmato dal presidente del Consiglio. Con le sue rivelazioni vuole spiegare agli italiani che Cosa nostra non è il mistero, la setta segreta, l'anti-Stato che la gente crede, ma la seconda gamba dello Stato e della sua economia, quella che consente a una nazione di sopravvivere: unita a parole ma divisa nei fatti. Davanti ai pm descrive suo padre come un grande "puparo", uno che teneva le fila di molte cose a Palermo e in gran parte dell'isola. E lo dipinge come se fosse stato lui il vero capo di Cosa nostra, con Provenzano e Riina al suo servizio. Sarà forse l'esagerazione di un figlio che non rinnega l'identità mafiosa del genitore, la sua prepotenza legata all'arroganza e alla violenza.
Le trame. A mettere d'accordo tutti gli inquirenti, anche i più scettici sulla sua genuinità, è il contributo che ha dato nella svolta alle indagini sulla trattativa riferita alle stragi del 1992. Prima si pensava che fosse successiva alla morte di Borsellino, mentre il "nano" ha raccontato che già prima della bomba di via D'Amelio suo padre cominciò a incontrare l'allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Questi ricordi, affiorati non solo alla mente di Massimo, ma anche sui giornali, non solo hanno portato diversi riscontri alle sue affermazioni ma hanno fatto in modo di risvegliare la memoria a importanti esponenti del mondo politico e istituzionale dell'epoca. A cominciare dall'ex presidente della commissione antimafia Luciano Violante, degli ex ministri della Giustizia, Conso e Martelli, e della sua collaboratrice Liliana Ferraro.
Ma che cosa ha detto e continua a dire Massimo Ciancimino? Per esempio, che i rapporti fra mafia e governo italiano erano a livello così alto e per così dire istituzionale che Riina poteva scrivere il famoso "papello".
Parla anche di "spioni" deviati che hanno "assistito" e "aiutato" don Vito. L'enigma principale introdotto da questo anomalo "dichiarante" è proprio la figura un po' romanzesca del sempre presente ma mai individuato "Franco", l'uomo dei servizi che avrebbe fatto da anello di congiunzione tra le istituzioni e le cosche. Il personaggio che avrebbe avuto un ruolo, a dire di Ciancimino, nella trattativa fra la mafia e lo Stato. Le chiacchiere. Per cercare di individuare questo "Franco" gli investigatori della Dia di Caltanissetta hanno dato fondo ad ogni mezzo e utilizzato ogni stratagemma. Perché le indicazioni del "nano" cambiavano di volta in volta, anche davanti a fotografie in cui diceva di averlo riconosciuto, ma poi si correggeva. Fino a quando ha sparato un nome che il figlio di don Vito aveva già da tempo sussurrato ai giornalisti ma non aveva avuto il coraggio di dire ai magistrati. E punta il dito contro Gianni de Gennaro, l'ex capo della polizia, indicandolo come "vicino" al signor Franco.
La dichiarazione la registra un funzionario della Dia. Il "nano" cerca di gettare acqua sul fuoco, tenta di giustificare un'affermazione che attribuisce al padre, evidenziando che "non ho mai condiviso le sue idee su De Gennaro". Così per Massimo Ciancimino scatta l'accusa di calunnia. Perchè De Gennaro è stato uno dei primi investigatori ad avviare indagini sull'ex sindaco nell'ambito di inchieste coordinate da Giovanni Falcone. E proprio per questo don Vito li considerava nemici. Ma il curriculum giudiziario del "nano" si allunga in fretta: Caltanissetta lo accusa di calunnia, Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa, Reggio Calabria per riciclaggio e Ferrara per una mega truffa all'Iva. Un destino a cui, ironicamente, pare essersi rassegnato: "Quando accompagnavo mio padre capitava spesso di attenderlo in macchina insieme ad altri giovani aspiranti al successo. io ero il suo autista, il presidente Schifani, oggi seconda carica dello Stato, guidava l'auto di Peppino La Loggia e il presidente Cuffaro faceva l'autista di Calogero Mannino". Oggi a suo padre Massimo vorrebbe dire: "Loro si che hanno fatto carriera".
Chi ha avuto la possibilità in questi ultimi due anni di ascoltare e leggere le trascrizioni delle sue telefonate lo descrive come una persona contraddittoria, bugiarda e falsa. Ciancimino, di fatto, vive perennemente al telefono dove dice tutto e il contrario di tutto ai suoi interlocutori. Inventando spesso storie, ricostruzioni di episodi e incontri che lasciano stupiti gli inquirenti che continuano su questo punto a interrogarsi, valutando le dichiarazioni che spaziano fra i più importanti misteri d'Italia: dal caso Moro all'omicidio del banchiere Roberto Calvi, passando per la strage di Ustica.
Assomiglia a "Verbal" il personaggio de "I soliti sospetti" interpretato da Kevin Spacey che incolla verità e bugie fino a costruire un romanzo criminale. In cui però stragi, corruzioni e collusioni sono drammaticamente reali. Chissà quale sarà la prossima puntata.