Un enorme porto off shore a 15 chilometri dal Lido. Per ospitare le navi portacontainer e fare concorrenza ai grandi scali del Nord Europa. E' il piano faraonico voluto dall'ex sindaco Paolo Costa, con un preventivo da tre miliardi e mezzo di euro. Ma i dubbi sono molti, non solo economici

Venezia, arrivano i supercargo?

Qualcuno l'ha già definito il secondo moloch di Venezia, ovviamente dopo il Mose. Altri fanno notare che nel progetto (per ora solo con uno studio preliminare affidato a Thetis, sua controllata) spunta il Consorzio Venezia Nuova, che già gestisce il faraonico sistema di dighe a difesa della laguna, e che potrebbe portare a casa una fantastica doppietta.

L'idea è indubbiamente spettacolare: un porto off-shore, il primo del mondo o quasi, su un’isola artificiale a 15 chilometri dal Lido e 28 dalla terraferma, a Marghera. Obiettivo, soffiare il traffico cargo ai grandi porti commerciali del nord - da Rotterdam ad Amburgo - e attirare gli armatori delle enormi navi portacontainer. Il futuro, infatti, si gioca qui: su questi “mastodonti” lunghi 300 metri, larghi più di 40 e con un pescaggio (la parte dello scafo sotto il livello dell'acqua) che può superare i 14 metri.

Entro due anni, nel mondo i supercargo saranno 152, con una capacità di carico tra i 10 mila e i 18 mila TEU – semplificando, anche 15 mila container a nave - e costi di trasporto abbattuti di un terzo. È la nuova via del trasporto marittimo mondiale, ma c'è un problema: queste navi sono troppo grandi per entrare in laguna. Per questo, il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa ha estratto dal cilindro il porto off-shore. Un progetto da 1.382 milioni di euro, secondo le dichiarazioni ufficiali.

Ma un documento riservato in possesso dell'Espresso rivela che quei costi si riferiscono alle sole opere d’ingegneria civile: mancano tutte le infrastrutture secondarie, dalle officine alle chiatte da carico, dai cavi sottomarini ai serbatoi di stoccaggio, sino al nuovo oleodotto per il petrolio verso la costa, stazioni di pompaggio comprese. Morale: c’è chi parla di tre miliardi e mezzo d’euro. Un’opera stellare, che secondo alcuni piacerà moltissimo al partito del cemento, che tra l'altro sott'acqua non si vede. Ma i soldi chi ce li mette? Lo Stato, con la nuova legge speciale su Venezia (che però dovrà già provvedere a “mantenere” il costosissimo Mose) e fantomatici investitori privati.

Tutti contro tutti.

Il problema dei Cargo extralarge non è solo veneziano. I cinque grandi porti del Nord Adriatico (Trieste, Ravenna, Fiume e Capodistria oltre a Venezia) si sono associati nella NAPA, la North Adriatic Port Association. Ufficialmente, cooperano per fare sistema e intercettare in Mediterraneo i traffici marittimi tra Europa e Asia che oggi, provenienti da Suez, arrivano ancora perlopiù attraverso il Baltico e i mari del Nord. In realtà, più che organizzarsi in un fronte comune, i magnifici cinque si fanno una guerra senza quartiere. Un esempio tra i tanti? Da anni, Capodistria (e quindi la Slovenia) impedisce la realizzazione di un collegamento ferroviario tra il suo porto e quello di Trieste: mancherebbero solo sette chilometri di rotaia, ma non c'è verso di completare il tracciato.

I magnifici cinque.

Il nuovo business per i porti è intercettare i supercargo, eliminando la dispendiosa e costosa rottura di carico che consiste nello scaricare le merci dalle grandi navi su navi più piccole (i feeder), che poi vanno in porto. Un'operazione che comporta un allungamento dei tempi di trasporto e costi maggiori, dovuti proprio allo sbarco e al reimbarco dei container. La rottura di carico va esattamente contro la nuova filosofia del trasporto via mare: ne sanno qualcosa i porti nati per effettuare questi trasbordi, come Gioia Tauro. Ma per fare arrivare le navi direttamente sulle banchine servono fondali profondi, canali di transito adeguati e logistica ad hoc in terraferma. Per questo, tutti i cinque porti stanno cercando di espandersi, tenendo conto delle rispettive debolezze geomarine o strutturali. Trieste, che ha fondali naturali a 18 metri ma senza più spazi a terra, vuole protendere artificialmente le banchine di carico verso il mare, con un progetto da duecento ettari; Capodistria aumenterà la profondità delle sue acque dagli attuali 11,4 ai 15 metri; Ravenna sta a sua volta scavando un canale a 14,5 metri mentre la croata Fiume sta costruendo un nuovo terminal a terra, dragando i fondali per portarli a 12 metri.

Sfida ai venti, in alto mare.

E Venezia? Situata al crocevia dei sistemi di comunicazione dell'Europa centrorientale, godrebbe di una posizione ideale per garantirsi la leadership. Ma le chiuse del Mose hanno ridotto il pescaggio delle navi, per cui i cargo extralarge non entreranno più in laguna. Ecco allora l’isola artificiale in alto mare, 15 chilometri al largo del Lido e della bocca di Malamocco: qui le navi dovranno scaricare i container che saranno poi trasportati con chiatte presso un nuovo terminal a Marghera (sono già stati acquisiti 90 ettari per i piazzali in terraferma, aree ex Montefibre e Syndial). Le chiatte dovrebbero quindi percorrere 33 chilometri, di cui 15 in mare aperto – sfidando i temutissimi venti di bora o scirocco – più altri 18 chilometri in laguna, 14 dei quali in un canale a senso unico: se ci sono navi in uscita non possono entrare le chiatte; se ci sono navi in entrata, le chiatte non possono uscire. Non solo: con una risacca di oltre 40 centimetri, come faranno le gru a scaricare o caricare i container dalle navi, per non dire dalle chiatte? Le difficoltà naturali e i tempi - almeno sette anni di lavori - non sembrano preoccupare né Costa, né il Magistrato delle acque, che ha già dato via libera e che costruirà la diga frangiflutti, lunga quattro chilometri e profonda venti metri.

La rottura di carico.

Difficoltà naturali a parte, c'è la questione economica: mentre tutte le compagnie di navigazione cercano di ridurre tempi e costi della logistica, il porto off-shore comporta la tanto temuta “rottura di carico” che va proprio nella direzione opposta. E che per questo, secondo il partito degli scettici, renderebbe l'operazione tutt'altro che appetibile per i grandi armatori. Costa ribatte che i container saranno trasbordati “direttamente dalle grandi portacontainer alle chiatte, che li trasferiranno a Marghera senza nessuno stoccaggio in mare”, e questo di per sé dovrebbe bastare a rassicurare i più dubbiosi.

Chi paga cosa?


Lo studio commissionato ancora nel 2010 da Costa alla società inglese di ingegneria “Halcrow” fa capire che la cifra finale supererà sicuramente i 3.500 milioni di euro. Dopo la fase di progettazione sono previsti tre stralci a carico dello Stato: la diga frangiflutti, il terminal petroli e la pipe-line. Un “soggetto privato o altro” dovrebbe poi realizzare il terminal dei container e quello delle merci alla rinfusa, spedite cioè senza imballo: carbone, ferro, sabbia e così via. Il progetto di Costa, che piace sia al governatore veneto Luca Zaia che al sindaco Giorgio Orsoni, ha ottenuto un primo finanziamento di 770 mila euro da parte della Commissione europea per la preparazione della gara in project financing.

La nuova legge speciale.

In attesa di sapere se vi siano investitori privati interessati all'operazione, una grossa mano potrebbe arrivare dalla nuova legge speciale per Venezia, elaborata dal vicepresidente dei senatori PD Felice Casson e attualmente ferma in Commissione bilancio in attesa del via libera governativo. La normativa prevede l'assegnazione di due miliardi di euro all'anno per la città. Soldi che in gran parte verranno fagocitati dal Mose, e che dovrebbero anche sostenere il porto offshore. Il rischio è che per tutto il resto non restino che le briciole: su questo dovrebbe vigilare il nuovo Consiglio superiore di Venezia e Laguna. Ma arriveranno mai questi soldi? Paolo Costa (ex rettore a Ca' Foscari, ex ministro ai Lavori pubblici, ex eurodeputato ed ex sindaco di Venezia) è uomo di ampie vedute e grande tessitore di rapporti. Lui ci crede. Molti altri, un po' meno.

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