Ecco la storia dei "carnefici" e delle loro "vittime" e i documenti del processo.
La fine del mondo ha una data: il 2025. L'anno del «picco», vaticinano gli scienziati. Non è una profezia, è un dato di fatto. Solo in Italia durante quei dodici mesi i morti d'amianto mangiati dal mesotelioma saranno infatti centinaia e centinaia, per un conto macabro che porterà a trentamila i caduti complessivi dall'inizio della carneficina. Uccisi dal mesotelioma pleurico, il più bastardo dei tumori. Trentamila morti. Non sono dati buttati a caso da qualche ecologista furente, ma stime scientifiche. Il massacro che verrà è una certezza matematica. A Casale Monferrato, a Sesto San Giovanni, a Napoli, a Siracusa, a Monfalcone. Non toccherà solo agli operai, ma anche a chi con l'amianto non ci ha mai lavorato. Ai familiari intossicati dalle polveri portate a casa da padri e mariti, a chi vicino all'amianto ci ha abitato troppo a lungo.
«Il 2025? Beato chi ci arriverà» mi gridano i parenti delle vittime, con marcato accento piemontese. «Pensiamo ai morti che abbiamo già pianto, a quelli che stiamo piangendo ora. Vediamo come va a finire il processo. Capiremo se esiste giustizia terrena, o se bisogna aspettare solo quella divina. » Perché per questa tragedia un processo è stato aperto davvero a Torino. Le parti in battaglia sono come sempre due: da una parte l'esercito dei morituri e dei familiari dei già morti, capitanati dal Pm Raffaele Guariniello, dall'altra due miliardari. Chiamati da tutti, semplicemente, «lo svizzero e il belga».
Nel 1941 il giovane Louis, oggi «l'imputato numero due», aveva vent'anni, e stava bruciando i suoi giorni in un lager nazista per prigionieri di guerra. Questa storia la racconta spesso, anche oggi che di anni ne ha ottantotto suonati. Nato bene, il barone Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne s'era arruolato quando Hitler aveva invaso il Belgio, ed era stato catturato dopo i primi combattimenti. Deportato in un campo, circondato da filo spinato e mine antiuomo a centinaia. Capì che la fuga era cosa praticamente impossibile. Louis, che era ufficiale, stremato dalla fame e da condizioni di vita disumane, ci provò lo stesso, tentando il tutto per tutto. Lo fece correndo dritto sul campo, come un pazzo: o la va, o pazienza. Chiuse gli occhi e cominciò a mulinare le gambe. Veloce era veloce: i tedeschi non lo videro, le bombe non esplose- ro. La sorte gli fu amica, un miracolo, e riuscì a fuggire senza nemmeno un graffio.

Stephan Ernest Schmidheiny, l'imputato «numero uno», la guerra non l'ha mai nemmeno vista. Nato nel 1947 a Heerbrugg, cittadina verdissima della Svizzera, è oggi uno degli uomini più ricchi del mondo. Per la precisione, il duecentottantottesimo. Secondo «Forbes» nel 2008 la sua fortuna toccava i 3,7 miliardi di dollari, un po' meno dei cinque intascati dal fratello Thomas e i dieci che rimpinguano il conto in banca del finanziere appassionato di Coppa America, Ernesto Bertarelli, il quarto svizzero più ricco del mondo.
Stephan e Thomas sono figli di papà. Di papà Max, che grazie all'amianto ha fatto la fortuna della famiglia per le prossime venti generazioni. L'Eternit, l'impasto di cemento e asbesto, l'hanno brevettato gli austriaci, è vero, ma sono gli svizzeri ad averlo diffuso in mezzo mondo, Italia compresa. L'imputato numero uno era il successore designato dell'impero. Nel 1968 studia giurisprudenza a Roma, e partecipa al Sessantotto. Proprio allora diventa un ambientalista convinto. Sette anni più tardi accede alla sala dei bottoni, prendendo la guida di una delle tante società del padre, e nel 1976 fa il balzo sulla poltrona di presidente, divenendo proprietario del gruppo nel 1984. Guariniello, che dopo un lavoro titanico e certosino ha raggruppato in un unico fascicolo tutti i morti e i malati d'amianto certificati in Italia, lo ha messo sotto accusa «nella qualità di effettivo responsabile della gestione delle società esercenti gli stabilimenti di lavorazione dell'amianto siti in Cavagnolo, Casale Monferrato, Bagnoli e Rubiera ». Le sue colpe presunte: disastro e omissione di misure di sicurezza. I 2.191 morti finora calcolati sono sul suo groppone, come la fine certa di altre migliaia di malati, secondo il giudice. È lui il mostro, dice la stampa. «È semplicemente l'ultimo rimasto con il cerino in mano» ribatte il suo avvocato.
A Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, lo chiamano «lo svizzero» o il «miliardario svizzero». Il suo cognome è come una bestemmia, o forse solo troppo difficile da pronunciare. Il fuoco e la rabbia bruciano nello stomaco di tutti i sopravvissuti - donne, vecchi, ragazzi. La città da cento anni respira amianto, mangia amianto, cammina sull'amianto. È d'amianto. Amianto, dal greco «incorruttibile». L'altro nome del veleno, asbesto, significa «inestinguibile». Come la paura di chi ne è stato contaminato. Lo stabilimento piemontese, 94.000 metri quadrati di cui la metà coperti (da amianto), è stato un simbolo per ottant'anni. La cattedrale operaia della città, dal 1906. Le tute blu che ci hanno speso una vita sono migliaia, decine di migliaia le persone che costruiranno tetti, aie per i pol- li, muretti e strade con il polverino, gli scarti di lavorazione regalati dalla fabbrica per decenni. Fino al 1952 la proprietà è italiana, della famiglia Mazza. Poi il gruppo belga compra l'intera attività. Un affare: l'Eternit è il materiale perfetto per la ricostruzione del dopoguerra. Ha un costo basso, capacità costruttive elevate, viene pubblicizzato come il materiale eterno. «I mille usi dell'amianto» strizzava l'occhio un volantino dell'epoca. Nessuno al tempo immaginava gli effetti devastanti delle sue fibre e polveri sottili. Solo negli anni Sessanta la comunità scientifica lancia l'allarme. Peccato che la distribuzione di polverino d'amianto non si arresti, di sicuro fino al 1976, ma diversi testimoni ricordano che proseguì anche più tardi. La città e la campagna si sono riempite di asbesto, oggi non ancora bonificato.
I belgi, una volta assunto il controllo, si espandono, e aprono altri capannoni a Bagnoli e in Sicilia. Le vendite vanno forte fino agli inizi del 1970, l'amianto si diffonde più della plastica. Ferri da stiro, tetti, guanti da forno, schermi cinematografici, filtri per pipe e sigarette mentolate, phon per capelli, carrozze ferroviarie, assorbenti interni, scuole coibentate con l'asbesto spruzzato. Tubature, tubi di scappamento, linoleum, freni per auto, canne fumarie, il veleno si annida ovunque.
Poi la crisi del settore, nerissima. I belgi non vogliono investire, non ci credono più. Nel 1972 gli Schmidheiny, che sono i capitalisti dominanti del mercato, comprano tutto il pacchetto di quote. «E dal 1975 al 1986, anno del fallimento e della chiusura definitiva, investono un fiume di denaro, una roba enorme, circa 46 miliardi di lire totali. Buona parte serviranno a ristrutturare gli impianti, che passano dalla produzione a secco, dove le polveri galleggiano nell'aria, a quella a umido, in cui la sostanza bagnata è più contenuta» spiega l'avvocato dell'imputato numero uno, il romano Astolfo Di Amato.
Guariniello la pensa diversamente.
Il processo messo in piedi a Torino è maxi: due imputati, 2191 vittime accertate fra il 1952 e il 2008, 2889 tra organizzazioni e persone singole costituitesi parte civile, 557 testimoni, ex dipendenti degli stabilimenti Eternit sentiti dal Pm, 220.000 pagine di atti giudiziari, 1200 posti a disposizione di chi vorrà assistere alle udienze.
Da aprile 2008 i pullman stipati di testimoni fanno la spola tra Casale e la procura di Torino. Portano un carico di dolore, di dead men walking che chiedono giustizia. Stephan ha promesso indennizzi importanti, ma loro non vogliono quella che definiscono carità: 36.000 abitanti, 2000 morti, il rapporto proporzionale è assurdo. «Un'ecatombe non si perdona, non si compra.» Il 6 aprile, davanti ai cancelli della procura, per l'udienza preliminare, hanno sfilato «i morti che verranno». Identica scena il 10 dicembre, primo giorno del processo. Romana Blasotti Pavesi, preside dell'Associazione italiana esposti amianto, ha perso prima, nel 1982, il marito Mario, l'unico familiare che lavorava in fabbrica. Otto anni dopo Libera, la sorella minore che in fabbrica non aveva mai messo piede. Poi, nel 2003, è il turno di una nipote e di una cugina.
Nel 2004, il colpo più duro, la morte di Maria Rosa, la figlia. Romana è il simbolo di tutta la folla che ricorda a ogni giornalista che passa a Casale che in paese ogni anno si contano cinquantacinque nuovi decessi per amianto. Molte donne sono morte perché respiravano a casa «la seta della salamandra», così gli antichi chiamavano l'amianto, che rimaneva appiccicata alle tute dei mariti. La spargevano per casa, nei letti, in cucina. Laura con un filo di voce rivela che è stata messa al corrente del suo mesotelioma solo nel 2006, ma sapeva da vent'anni che il cerchio, inevitabilmente, si sarebbe stretto intorno a lei: il suocero, il marito e il cugino avevano ricevuto la stessa, schifosa diagnosi.
«Ero addetto al reparto plastica, quello che, si diceva, era più pulito, ma qualche volta per punizione mi hanno spedito a pulire i filtri dei tubi a pressione, e lì si accumulava tutta la polvere possibile» raccontava all'«Unità» qualche tempo fa Mario Caprari, che all'inferno ci ha passato sedici anni. Il giornalista Giampaolo Pansa, pure lui nato e cresciuto a Casale Monferrato, parla di una Spoon River collettiva. È vero, alle prime udienze i racconti disegnano un caleidoscopio sociale, dove la differenza di classe è cancellata dalla sorte comune.
Operai, casalinghe, professionisti, professori, giornalisti, politici, ricchi e pezzenti. Gabriella Ganora era moglie del figlio del grande allenatore del Milan Nils Liedholm. Da adolescente giocava a pallavolo davanti alla fabbrica, e la sabbiolina bianca, scrive il «Corriere della Sera», le ragazze «la usavano per delimitare il campo, e attutire i colpi dopo le cadute nell'inseguire la palla». Schiacciata, bagher, muro, servizio, che cosa potevano saperne del mesotelioma. Gabriella nel gennaio 2007 ha sentito una fitta alla schiena, e ha capito subito. Una compagna di squadra era morta l'anno prima, stessi sintomi iniziali. La fine pochi mesi dopo, nel giugno 2008. Davanti alla procura, con striscioni e cartelli, i giorni delle udienze si incontrano anche francesi, svizzeri, belgi e tedeschi, che guardano al processo con interesse enorme: all'estero chi si è ammalato di cancro, asbestosi o mesotelioma riesce a prendere senza troppe difficoltà risarcimen- ti economici nei tribunali civili, ma non esistono processi penali come quello messo in piedi in Italia. Jean-François Borde, che ha portato quaranta colleghi dell'ex stabilimento Eternit di Vitry-en-Charollais, ribadisce che a Torino nessuno è venuto per una gita turistica. «Abbiamo deciso di essere qui per sostenere la gente di Casale, scambiare informazioni e vedere come si comporta la giustizia italiana di fronte a questa tragedia.»
Guariniello ce l'ha messa tutta. Ha trovato gli indirizzi di quasi tremila persone, per notificare gli atti; ha ipotizzato, per la prima volta in assoluto, il reato di disastro non solo «interno» (che colpisce, dunque, i lavoratori) ma anche «esterno», con il coinvolgimento dei cittadini che hanno vissuto vicino alla fabbrica; ha portato alla sbarra non solo quadri e dirigenti secondari, ma i vertici massimi di una multinazionale, cosa rara in processi di questo genere. Guariniello, soprattutto, ha messo insieme migliaia di carte, documenti, fotografie e testimonianze che hanno indotto il giudice per le indagini preliminari a disporre il giudizio. Una delle prove chiave della negligenza dei due imputati è una relazione tecnica del 23 febbraio 1976. Da anni gli scienziati hanno già spiegato i gravi rischi per la salute collegati all'amianto. La lettera è firmata dal dottor K. Robock, il responsabile della sicurezza sul lavoro e tutela ambientale della Wirtschaftsverband Asbestzement E.V., l'Associazione commerciale cemento-amianto a cui appartenevano i produttori più importanti. Destinatario: Luigi Reposo, direttore della fabbrica di Casale.
Dieci paginette da leggere attentamente, che lasciano senza fiato.
"La pulizia delle macchine non è da considerarsi soddisfacente. Per questa attività vengono impiegate esclusivamen- te scope. In tal modo le macchine e i pavimenti del capannone vengono certamente puliti in maniera irreprensibile, ma allo stesso tempo vengono sollevati dei vortici di polvere sottile che portano a un innalzamento del livello di polvere complessivo [...] Come protezione contro la polvere sono state indossate quasi esclusivamente maschere protettive contro polvere grossa. L'effetto barriera di queste maschere contro le polveri sottili è decisamente limitato. Indossare queste maschere ha più che altro un valore psicologico. Qualora in Italia non venga subito prescritto da parte delle autorità l'utilizzo di maschere adeguate, consigliamo l'impiego delle maschere protettive contro polvere sottile".
«Consigliamo»
"Punti di misura 10 e 11: è stato osservato che gli operai tolgono i blocchi di amianto pressato dai sacchi anche molto tempo prima dell'inserimento, non è da escludere che la circolazione d'aria possa in questo modo trasportare fibre [...] Punto di misura 13: al momento della misurazione il sistema di aspirazione era otturato. Il risultato mostra che, a causa di ciò, non solo viene liberato cemento, come già sappiamo, ma anche una considerevole quantità di fibre [...] Punto di misura 16: i sacchi di plastica utilizzati sono in parte danneggiati e vengono fatti arrivare al bocchettone di riempimento allentati. Durante il riempimento vi è quindi un notevole sviluppo di polvere [...] Punto di misura 22: qui l'aspirazione non è ottimale [...] Punto 23: qui sussiste il rischio legato all'alta concentrazione di polveri sottili [...] è possibile che di tanto in tanto l'aria carica di polvere venga deviata dall'aspirazione. Sarebbe opportuno [...] Punto 31: al termine del processo di taglio, quando dalla lastra viene rimosso del materiale, si alza una visibile nuvola di polvere. A mio avviso, questo inconveniente può essere evitato allungando la cappa".
Negli altri appunti si parla di aspirazioni «non ottimali» e di tubi «difettosi», poi si chiude con il punto di misura 40. «Se si considera l'effetto a breve termine, l'impatto ambientale è minore di quanto non ci si aspetti. Il conducente del camion, che durante lo scaricamento si trova in mezzo a una fittissima nuvola di polvere, è però fortemente a rischio». Il consiglio: indossi una maschera protettiva adeguata. Ergo: quando gli ispettori hanno fatto visita a Casale, non la usavano. Alla fine il dottor Robock è comunque più che soddisfatto. Addirittura «molto sorpreso» per la quantità bassa di polveri di amianto. L'impianto è promosso a pieni voti, tanto che «la priorità non è più quella di puntare sugli investimenti, ma su misure formative e preventive, in questo caso specialmente per quanto riguarda le attività di pulizia».
Stephan Ernest Schmidheiny si è ripulito alla grande. L'Eternit italiano è fallito oltre venti anni fa, lui non ha più cariche formali nell'azienda di famiglia, ma i suoi investimenti hanno continuato ad andare a gonfie vele. È tra i fondatori della Swatch, che produce gli orologi di plastica a basso prezzo più venduti del mondo, ed è o è stato membro dei consigli di amministrazione di colossi aziendali, da Asea Brown Boveri alla Nestlé, passando per l'Ubs. Ma oggi ama definirsi, più di ogni altra cosa, un filantropo. Già: per gli scherzi del destino, quello che qualcuno accusa di essere una sorta di avvelenatore seriale, dagli anni Novanta promuove con la fondazione Fundes lo sviluppo di aziende ecosostenibili in Sudamerica; finanzia associazioni ambientaliste come Avina, che si occupa di cooperazione e assistenza sociale; diventa consulente di Bill Clinton e parla all'Onu e al Vaticano; scrive libri sullo sviluppo sostenibile; riceve svariati premi e persino lauree honoris causa, come quella, prestigiosa, assegnata dalla Yale University. «Sono cresciuto in una fattoria piena di vigneti, e con i miei parenti ero solito compiere escursioni in montagna» racconta. «Le vacanze le passavamo sulle isole del Mediterraneo, e lì ho iniziato a occuparmi della difesa dell'ambiente.» Una conversione quasi religiosa, quella dell'ex Mister Eternit.
Frasi al limite del paradossale, da chi è accusato di non aver disposto impianti e apparecchi per prevenire malattie e patologie da amianto, omesso di «sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario mirato sui rischi specifici da amianto», di aver determinato, a Cavagnolo, Casale, Bagnoli e Rubiera, «un'esposizione incontrollata continuativa e a tutt'oggi perdurante » scrive duro il Gip nel decreto «senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosità dei predetti materiali e per giunta indicendo un'esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante attività ludiche». Stephan si difende così: «Io stesso ho respirato fibre di amianto quando ero in Brasile, a fare formazione. Mi è capitato spesso di aver caricato sacchi di amianto... I nostri consulenti credevano che negli studi scientifici che evidenziavano gli effetti nocivi dell'asbesto c'erano delle contraddizioni. Io ho immediatamente installato nuove apparecchiature e filtri per ridurre al minimo la concentrazione di fibre nell'aria delle nostre fabbriche. Abbiamo anche attuato programmi di formazione del personale per ridurre al minimo i rischi. Allo stesso tempo, ho annunciato pubblicamente che il gruppo avrebbe smesso di produrre prodotti contenenti amianto, molto prima che l'Unione europea imponesse il divieto. Mi ricordo ancora le parole di uno dei responsabili tecnici dopo il mio annuncio: “Il giovane Schmidheiny è pazzo!”».
Sarà. Il destino di Stephan il filantropo è ora in mano ai giudici, che dovranno decidere se era davvero a conoscenza dei rischi e nulla ha fatto per salvare la vita ai suoi operai o se, al contrario, nulla poteva contro gli effetti del veleno. Ma una cosa è certa: al processo di Torino c'è un altro imputato di pietra, lo Stato italiano. Uno degli ultimi a bloccare ufficialmente le produzioni in amianto: se la Marina inglese vieta la coibentazione a spruzzo già nel 1963, e l'Australia bandisce il veleno nel 1970, prima ancora che gli svizzeri scendessero dalle Alpi, nel Belpaese la prima direttiva che mette limiti alla quantità di polveri è del 1982, ma il divieto definitivo arriva nel 1992. La pubblicazione di ricerche scientifiche che inequivocabilmente dimostravano la pericolosità della sostanza avviene trent'anni prima, mentre nel 1976 l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro avverte che ogni tipo di asbesto è altamente cancerogeno.
Se ne fregano tutti. I governi che si sono succeduti hanno consentito non solo la produzione massiccia, ma la diffusione selvaggia di amianto in tutto il Paese. Solo tra il 1984 e il 1988, mentre l'Unione europea raccomandava la messa in mora e i Paesi scandinavi smantellavano le fabbriche e bonificavano il bonificabile, in Italia ne sono state piazzate tre milioni di tonnellate. Oggi si stima che esistano ancora 2,5 miliardi di lastre di cemento-amianto da rimuovere, pari a circa 32 milioni di tonnellate, in gran parte materiale friabile tossico. Sono dati del Cnr. Ripostigli, garage, condutture idriche, scuole e ospedali sono ancora foderati di Eternit. Interi quartieri galleggiano nelle invisibili polveri, e almeno mille italiani ogni anno vengono uc- cisi dalla morte bianca. La dimensione sociale del fenomeno è enorme: basta dare un'occhiata ai dati Inail, che riceve 1400 denunce di malattie da amianto ogni dodici mesi. La legge prevede una pensione privilegiata per chi abbia lavorato a contatto con il veleno, e, visto che il periodo di latenza del mesotelioma può durare quarant'anni, gli esperti sanno che i numeri andranno ad aumentare esponenzialmente negli anni a venire.
Secondo l'Associazione italiana esposti amianto sono 210.000 i cittadini ancora a rischio. Il killer invisibile è annidato dappertutto. La Spezia e Genova, si sa, hanno tassi di asbestosi tra i più alti del mondo: la sostanza arrivava nascosta nelle navi militari ed era conservata a decine di tonnellate nei depositi per il crisotilo, l'amianto blu. I porti sono zone franche. Altri punti sensibili, secondo i dati nazionali dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (Apat), sono le ex miniere di Balangero, in Piemonte, alcune fabbriche di Marghera a Venezia, la vecchia base aeronautica di Monte Venda, sui Colli Euganei, la solita, sfortunata Seveso, la Breda di Sesto San Giovanni e di Pistoia, dove si sono costruiti per lustri i convogli dei treni imbottiti di asbesto. Ancora. L'amianto è stato padrone ai cantieri navali di Trieste e alla Fincantieri di Monfalcone, nel paese di Biancavilla, in Sicilia, dove fino alla metà degli anni Novanta lo sfruttamento di una cava, ha ricordato il giornalista Paolo Forcellini in un'inchiesta sull'«Espresso», «ha diffuso polveri d'amianto in ogni angolo. Come alla ex fabbrica Fibronit di Bari, i cui residui di amianto sono stati per anni scaricati in mare, cosicché a poco a poco le fibre si sono depositate su una spiaggia». L'ecatombe è quotidiana: i ricercatori del Monaldi di Napoli, un polo di eccellenza per la diagnosi e la cura delle malattie respiratorie, hanno redatto nel 2009 un rapporto choc, studiando le cartelle cliniche dei morti nell'ultimo decennio in Campania per mesotelioma pleurico.
Ebbene, tra il 2002 e il 2006 c'è stato un aumento di casi del 50 per cento rispetto al quinquennio precedente. E su 213 casi censiti, 198 hanno riguardato persone che non hanno mai lavorato in mezzo al veleno. Come si spiega allora un fenomeno così massiccio? «La rimozione e il deposito in discariche speciali dell'amianto, come previsto dalla legge, non è semplice,» scrivono i ricercatori «per cui spesso l'amianto è gettato in discariche comuni e/o abusive, e quando gli agenti atmosferici penetrano nelle discariche ne possono derivare percolati che diffondono le fibre nocive nell'ambiente e nelle acque.» Il rapporto presenta una dedica speciale «in ricordo di due cari amici morti di recente per il mesotelioma». Ancor oggi nessuno ha pubblicato una mappatura degli edifici pubblici contaminati, ma è sicuro che alcune regioni, tra le quali la Toscana, una volta venute a conoscenza della quantità di veleno tuttora in circolo, hanno preferito secretare la documentazione. Peccato, perché la legge del marzo 2001 ha stanziato per la mappatura nazionale ben 9 milioni di euro. Calabria, Lazio e Sicilia non hanno consegnato ancora alcuna tabella, mentre Campania, Puglia, Umbria, Veneto e Valle d'Aosta hanno inviato al ministero dell'Ambiente dati parziali e statistiche poco significative. Nessuno, in Italia, ha investito massicciamente sulla bonifica del territorio, nemmeno per le condutture: in quasi tutte le grandi città vengono usate migliaia di condutture in cemento-amianto per trasportare l'acqua nelle nostre case. «Non è un problema» affermano gli scienziati dell'Oms. «Non è sicuro che l'amianto bevuto faccia male come quello che si respira.» Allora sì, siamo tranquilli.
(tratto dal libro di Emiliano Fittipaldi "Così ci uccidono", Rizzoli 2010)