Il nuovo governo in teoria ha ritirato il divieto di ingresso della stampa nei Centri di espulsione. Ma a Milano, in via Corelli, mostrano ai giornalisti solo una delle cinque sezioni: quella disabitata. Per non far vedere il degrado del resto. La prova in questo video

«Fine della censura nei Cie»: così titolavano blog e testate on line, lo scorso 13 dicembre. Il neo-ministro dell'Interno, Maria Cancellieri, aveva ritirato la circolare 1305, con la quale Roberto Maroni, suo predecessore, aveva vietato l'ingresso della stampa nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), per 'non intralciare le attività rivolte agli immigrati'.

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La cortina che sigillava i detenuti sembrava finalmente caduta, risultato di una campagna per il diritto di cronaca sostenuta da numerose associazioni, oltre che dalla Federazione nazionale della stampa italiana e dallo stesso ordine dei giornalisti. Una mobilitazione cui avevano aderito migliaia di cittadini e intellettuali, nella speranza di dare voce alla frontiera dimenticata delle espulsioni. Da allora, diversi professionisti hanno richiesto l'autorizzazione a entrare nei centri, sia per comunicare con gli immigrati che per verificare le reali condizioni di detenzione.

L'attesa, com'era da aspettarsi, è stata davvero lunga. Dopo oltre sette mesi, però, a sorpresa è arrivata l'autorizzazione della prefettura di Milano: è stato quindi possibile varcare la soglia del Cie di via Corelli, nella periferia est della città. Un luogo blindatissimo, normalmente inavvicinabile, dove gli immigrati possono rimanere chiusi anche diciotto mesi, prima di essere identificati e rimpatriati. Purtroppo, il 'viaggio' di stampa e tv è stato fin troppo 'organizzato': una volta dentro, ai giornalisti è stato comunicato che avrebbero visitato solo una delle cinque sezioni del centro – la 'E' – distrutta da un incendio lo scorso gennaio, e quindi disabitata. A parte i calcinacci, stanze e corridoi erano (ovviamente) vuoti. Unici ospiti: gli operai, impegnati a rimettere in sesto la struttura.

«Vorremmo visitare i bagni e le stanze dove vivono gli immigrati», chiedono i giornalisti alla fine del percorso guidato. «Non si può», risponde Giusy Massa, ufficio stampa della prefettura. «Per disposizione del ministero non potete accedere a spazi dove si svolgono attività legate alla privacy». L'insistenza dei cronisti, dovuta anche ai sette mesi di attesa per ricevere l'autorizzazione, è del tutto inutile, al pari della proposta di fare un rapido giro a telecamere spente, senza riprendere i detenuti né gli spazi dove vivono. «Dobbiamo tutelare l'ordine e la sicurezza interni, ed evitare situazioni di agitazione per gli ospiti».

In sostanza, i giornalisti si devono 'fidare' delle dichiarazioni di Massimo Chiodini – funzionario della Croce Rossa e direttore della struttura – senza verificare con i propri occhi le reali condizioni di vita degli immigrati, che in questo caso si trovano semplicemente dall'altra parte del muro.

Durante il passaggio nel corridoio centrale, dove affacciano le cinque sezioni del Cie, alcune trans battono mani e pugni sul blindo, attirando la nostra attenzione. Chiedono di poter parlare con noi, si guardano intorno e gridano: «Vogliamo uscire! Vogliamo uscire!».

Come da protocollo, riusciamo a incontrare una di loro, che viene accompagnata dagli operatori della Cri in una stanza separata. «Non vi fanno entrare perché qui è tutto un degrado», spiega la donna. «I bagni sono spaccati, i rubinetti non vanno e su quattro docce ne funziona solo una. Questa struttura va chiusa, deve essere messa a posto. Siamo stranieri, non siamo mica animali».

Condizioni ben diverse da quelle descritte da Chiodini e dal resto degli accompagnatori. E confermate anche da un altro detenuto, che abbiamo potuto scegliere da una lista di nomi stilata dalla Croce Rossa. «I bagni? Sono peggio di una pattumiera», racconta il giovane, arrivato in Italia dall'Egitto. «In cortile non c'è un albero, fa caldo e non abbiamo nemmeno un ventilatore. È un inferno».

Gli chiediamo informazioni sugli psicofarmaci, al cui utilizzo aveva accennato anche la trans della sezione 'A': «Sì, li danno a molti detenuti, quasi ogni sera. Io cerco di non prenderli, perché non li voglio. Però – aggiunge – dopo mangiato spesso mi viene sonno. Di più non posso dire». Alla fine, il giovane descrive anche il rapporto con la polizia interna al Cie, che dovrebbe essere chiamata dalla Croce Rossa solo per interventi di estrema necessità: «Una volta un ragazzo marocchino si era agitato più del solito perché non ce la faceva più, voleva uscire e andare dalla moglie italiana e dal figlio. Aveva iniziato a gridare, era anche diventato volgare». Risultato? «È stato preso a calci e pugni da dieci carabinieri. E poi è stato portato in infermeria».

Questi i racconti dei due detenuti con cui ci è stato concesso di parlare. Certo, la situazione descritta da loro è molto diversa da quella presentataci dalla Croce Rossa e dagli altri operatori del Cie. Peccato che non sia stato possibile verificarla, nonostante avessimo l'autorizzazione alla visita e il diritto-dovere di informare l'opinione pubblica. L'unica certezza è che, al di là delle dichiarazioni di rito, il Cie resta una frontiera che non si può e non si deve raccontare. E dal quale, come ha detto il giovane detenuto egiziano, «vogliono evadere tutti, nessuno escluso».

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