Sono anni che gli inglesi e gli americani accettano inviti dal governo cinese per formare la classe manageriale locale trasferendole conoscenze in cambio di una presenza permanente all'interno della loro accademia e di contatti informali con le migliori menti della seconda potenza economica mondiale.
Prodi è stato il primo ad accorgersi che c'è posto anche per gli italiani. E il suo esempio non è stato invano. Negli ultimi cinque anni un piccolo ma determinato drappello di giovani e ambiziosi accademici italiani non ha avuto esitazioni nel fare rotta verso la Cina, cercando di supplire alle falle del nostro sistema Paese e costruendo ponti culturali ed economici tra il gigante asiatico e l'Italia.
Quasi tutti sono partiti per mancanza di opportunità vere nel nostro Paese, afflitto da nepotismo e assenza di meritocrazia. Non sempre è stato facile. Per approdare alle coste asiatiche alcuni sono passati attraverso istituzioni o università anglosassoni, altri si sono inventati una carriera da zero, con tanto spirito di adattamento e un pizzico di fortuna. La lingua è sempre un ostacolo enorme all'integrazione, soprattutto per chi non è certo di volere rimanere in Cina a lungo. Molti hanno rinunciato o rimandato la formazione di una famiglia, almeno temporaneamente. Per le donne è difficile perfino avere una vita sentimentale.
"Al contrario degli uomini, non è facile trovare un partner cinese", raccontano. Le più fortunate si sono avvicinate a compagni anglosassoni con cui dividono ambizioni e passioni. E poi l'esperienza totalizzante della Cina, dove gli studenti che per formazione sono privi di spirito critico, non dialogano mai apertamente con i professori, da cui si aspettano invece una sorta di controfigura dei genitori. "Si vestono come bambini, si rivolgono ai professori come bambini, e non scelgono mai il corso di laurea senza l'assistenza di mamma e papà", racconta uno dei professori italiani in Cina. In compenso però ascoltano sempre e tutto con attenzione, determinati a migliorare la qualità della propria vita e lo status internazionale del proprio Paese.

Una laurea in cinese con indirizzo storico alla Facoltà di lingue Orientali di Roma, la passione di Caprioni è una regione antica, remota e travagliata della Cina: lo Xinjiang.
Il dottorato a Cagliari - sei mesi dei quali in Xinjiang - verte sul revival del nazionalismo uiguro, poi il post doc in Canada. In Cina rientra per insegnare "relazioni etniche" alla Minzu Daxue, l'università delle minoranze etniche di Pechino, per conto del "Council on International Educational Exchange". "Per me la Cina è stata una scelta obbligata, visto il mio interesse per gli uiguri", racconta al telefono da Pechino: "Ma il Canada sarà il Paese dove porterò avanti la mia carriera universitaria come esperta di Xingjiang. In Italia non rientrerò sicuramente, e comunque lì non c'è alcun interesse per la materia. E poi non mi piace affatto l'ambiente universitario italiano". Conclusa l'esperienza di vita cinese, Caprioni, 32 anni, di Giulianova, un compagno canadese, a fine anno è pronta a fare i bagagli per l'università di Toronto, dove ha vinto un posto come ricercatrice.

Vuole diventare un ponte tra l'Europa e la Cina, uno di quei pochi di cui entrambi le parti si fidano. Ha le idee chiare Michele Geraci, 46 anni, siciliano, capo della sede cinese del think tank londinese Global Policy Institute, e ricercatore presso la prestigiosa università cinese dello Zhejiang ad Hangzhou. Soprattutto, ha la forza di volontà per perseguirle: "Bisogna fare bene ciò che piace, i soldi poi arriveranno", racconta lui, una laurea in ingegneria elettronica a Palermo e un master in Business Administration al prestigioso Mit di Boston. Un curriculum di eccellenza. Non ci pensava all'università Geraci, ormai trentenne, banchiere nella City londinese. Ma era alla ricerca di novità, del futuro. Nel 2007 la Cina era la "cosa più nuova" in circolazione, e quando in un incontro con alcuni investitori internazionali gli venne chiesto se conoscesse qualcuno disposto ad andare in Cina ad insegnare finanza e a occuparsi della filiale locale del Global Policy Institute lui rispose: "Sì, io".
Era solo cinque anni fa. Oggi Geraci tiene seminari di finanza ed economia globale in lingua cinese in giro per le università del Paese - lui che non era certo un sinologo di formazione - e dispensa consulenze ad aziende e istituzioni europee e cinesi.

C'è poi chi dall'Italia cerca di dare il suo contributo per allargare i confini della nostra università. Giuliano Noci, ordinario di Marketing del Politecnico di Milano e delegato del rettore per l'internazionalizzazione dell'Ateneo, è dal 2004 che viaggia regolarmente in Cina per insegnare marketing e design agli imprenditori cinesi: oggi è Research fellow presso la Shangahi Jiaotong University. "Soprattutto negli ultimi due anni è cresciuto l'interesse dei cinesi per il modello di impresa europeo soprattutto in settori come la moda, il design e l'architettura". Non solo. Almeno una volta al mese è in Cina alla ricerca di alleanze che possano aiutare i suoi studenti. "Abbiamo un accordo molto forte con la Tongji University a Shanghai per cui i ragazzi possono studiare due anni a Milano e due anni in Cina conseguendo la doppia laurea", racconta orgoglioso: "Ma stiamo lavorando a ulteriori accordi con altre università per offrire agli studenti il maggior numero di opportunità di scambio possibile". L'obiettivo finale è un accordo di doppia laurea con l'università Qinghua, l'equivalente cinese della nostra Bocconi.

"Non sono io che ho cercato un lavoro in Cina", spiega Gea Bonaffini, 28 anni, siciliana anche lei (di Mazzarino), una laurea triennale alla Sapienza e due anni di studi di cinese nella città occidentale di Chengdu: "È lui che è arrivato da me!". Sei anni fa non erano tanti gli italiani ad abitare in questa cittadina umida della provincia del Sichuan, famosa per ospitare i panda, mentre in crescita era la richiesta di cinesi desiderosi di imparare la lingua di Dante. Inizialmente insegnava privatamente ma "quando un professore di italiano che lavorava per il ministero degli Esteri è rientrato a casa mi ha lasciato il posto e per un anno sono stata pagata dal ministero per insegnare all'università del Sichuan". Poi i fondi italiani sono stati tagliati, lei è rientrata in Italia e ne ha approfittato per prendere una specializzazione in insegnamento della lingua italiana per rientrare stabilmente in Cina. Ora lavora direttamente per l'università del Sichuan: insegna ai ragazzi che aderiscono al programma Marco Polo (sei mesi di studi universitari in Cina e sei in Italia). "Non ho fatto la specialistica in Italia, ma è stata una scelta: ho avuto molte più opportunità in Cina di quante ne avrei avute rimanendo a Roma, e ora intendo restarvi a lungo".

Non tutti però hanno intenzione di rimanere a lungo in Cina, un Paese dove è difficile da occidentale inserirsi fino in fondo, soprattutto se non si parla bene la lingua, e dove la conversazione è necessariamente limitata da un'educazione ideologica e da una popolazione preoccupata quasi esclusivamente del proprio benessere personale. "In Cina non c'è cultura", spiega Andrea Bernardi, uno dei pochi italiani che ha accettato di vivere e lavorare come professore di Organizzazione del lavoro in un'università un po' fuori mano, quella di Ningbo, a tre ore da Shanghai: "Da queste parti non è che non c'è la cultura occidentale. Non c'è cultura e basta". La storia e la filosofia i ragazzi (tutti studenti universitari) non la conoscono, o meglio, sanno solo quello che insegnano loro i professori di partito nella classe di "storia e ideologia". Bernardi, che in autunno farà rotta verso l'università di Manchester insieme alla fidanzata inglese conosciuta a Ningbo, è approdato in Cina passando proprio per l'Inghilterra: era stata l'università di Nottingham a offrirgli l'opportunità professionale della sua vita. Perché la sua scelta non è stata tanto per la Cina quanto per l'abbandono dell'università di Roma Tre, dove tra il 2001 e il 2008 era stato professore a contratto. "Dovevo fare quello che il barone diceva di fare, le mie sorti dipendevano da lui", si sfoga oggi: "Quando poi dopo sette anni il concorso da ricercatore lo vinse un altro, mi sono reso conto che per andare avanti avrei dovuto cercare altrove e ho scoperto che in Inghilterra anche un outsider poteva trovare posto. In Italia i posti disponibili in università sono nascosti al pubblico mentre in Inghilterra sono ben pubblicizzati".
Enrico Fardella
A crescere in fretta pur seguendo un percorso prettamente accademico è stato anche Enrico Fardella, 34 anni, anche lui di Palermo (non sarà un caso), un dottorato in Relazioni Internazionali presso l'università di Firenze conseguito nel 2007 con una tesi sull'apertura americana alla Cina degli anni '70. È il primo occidentale ad ottenere il post doc presso l'Università di Pechino (Beida). "Nel 2005 mi sono recato a Beida come "studente in visita" e da allora ci sono rimasto, cercando di cogliere ogni opportunità che la Cina mi poteva offrire e al contempo proseguendo il percorso accademico italiano", spiega al telefono questo energetico storico sempre di corsa tra una cena di lavoro e una festa con gli studenti. A Beida è piaciuto talmente tanto che lo hanno inserito nel programma dei "Cento talenti" destinato soprattutto a facilitare il rientro in patria dei cervelli cinesi. Contemporaneamente ha vinto la "Science and technology fellowship" dell'Unione europea focalizzata a riequilibrare l'afflusso di ricercatori cinesi in Europa con un invio di europei in Cina. A Firenze insegna storia della Cina repubblicana, a Pechino storia dei rapporti internazionali tra la Cina e l'Europa durante la Guerra fredda, con qualche excursus nella storia americana contemporanea. Insomma, un professore, due mondi. "La mia formazione è per lo più cinese, ma la mia carriera accademica è legata all'Italia e il mio dottorato è valido in entrambi i Paesi", chiarisce Fardella al telefono mentre gira la chiave del suo appartamento fiorentino.
Sta per rientrare in Cina per condurre delle ricerche tra gli archivi del ministero degli Affari esteri per conto del Turin World Affair Institute, il think tank di politica estera fondato nel 2009 a Torino con i fondi della Compagnia di San Paolo e dove nel frattempo è diventato ricercatore associato e per cui cura il mensile "Orizzonte Cina".