La donna di servizio non si chiama più soltanto Magaly oppure Alina. A fare le pulizie di casa o ad aiutare i genitori anziani a lavarsi al mattino ci sono oggi Pina, Elisabetta o Luciana. Italiane insomma. Che tornano, dopo anni, a fare le colf. Le loro storie si assomigliano. Spesso sono donne separate con figli, oppure hanno il marito in cassa integrazione. In tasca, un diploma da anni nel cassetto, e una professionalità fatta di lavori di cura: della casa, dei figli, degli anziani. La scelta va da sé: mettersi sul mercato offrendo ciò che si sa fare meglio, accudire bambini, stirare lenzuola e camicie, pulire vetri.
L'Inps ha fatto i conti: a partire dal 2008 colf, baby sitter e badanti di nazionalità italiana sono aumentate del 20 per cento, passando da 120 mila nel 2008 a 143 mila nel 2011. E se è vero che i numeri sono ancora a favore degli extracomunitari (con 133 mila italiani su un totale di 652 mila), i mestieri che sembrava nessuno più volesse fare, appannaggio da anni delle donne venute dall'Est, ora tornano a essere un'opportunità.
Province e centri servizi organizzano corsi di formazione cui partecipano in massa per la prima volta anche le italiane. Si organizza pensando alle straniere, che hanno l'esigenza d'imparare bene la nostra lingua, ci si ritrova a vagliare decine di domande di connazionali.
E le connazionali sono sicuramente preferite alle straniere, quando si tratta di affidar loro magari il nonno. Gioca a loro favore il desiderio di rapportarsi con qualcuno che parli la stessa lingua, cucini in modo familiare, abbia le stesse abitudini. Miriam di Udine, alle spalle vent'anni in una fabbrica che produce sedie, ha seguito un corso di Federcasalinghe per diventare badante e ora viene cercata da famiglie e comuni. «In azienda sono stata a montaggio, carico e scarico, gestione del magazzino», racconta, «ma era in crisi e avrebbe chiuso presto, così mio marito mi ha iscritto a un corso per Operatore Socio Sanitario. Ho seguito disabili, anziani e tossicodipendenti. Se entri in punta dei piedi le famiglie ti accettano, si affezionano. Una volta che hai cominciato puoi continuare a frequentare corsi, a progettare un percorso».
Miriam pensa a un suo piccolo centro diurno per anziani. «Sono determinata. Ci vuole spirito di sacrificio, una capacità di sapersi adattare che non tutte hanno. Questo non è un lavoro pulito, nel senso che non sempre sai cosa troverai nelle case in cui entri. Però ai corsi ho incontrato anche donne di 60 anni che vogliono rimettersi in gioco. E uscire dalla solitudine».
L'identikit delle aspiranti colf italiane lo ha tracciato di recente la Fondazione Leone Moressa di Mestre: le lavoratrici domestiche hanno in media 46 anni e lavorano 19 ore la settimana. Sono casalinghe con un marito senza lavoro o in cassa integrazione, pensionate che non arrivano a fine mese, disoccupate che non trovano altro. Non ci si può permettere di restare a guardare e ci si rimbocca le maniche. Le donne di solito cercano lavori a ore, perché gli è più difficile trasferirsi a casa altrui come badanti. E allora si occupano di bambini, stirano, fanno le pulizie di casa. Chi sceglie l'assistenza agli anziani, in genere, a una certa ora torna comunque a casa.
Segnala Raffaella Maioni, presidente di Acli-colf (aclicolfonline.blogspot.it): «Proprio questa è una delle principali differenze con le loro colleghe straniere, che sono più disponibili a trasferirsi in casa d'altri perché hanno lasciato i figli al Paese. Altre differenze significative sono l'età (le immigrate sono di solito più giovani) e il livello di istruzione: quello delle italiane è più basso. Tra le straniere il 37,6 per cento ha un diploma superiore e il 6,8 per cento una laurea, contro il 23,2 per cento e il 2,5 delle lavoratrici domestiche italiane».
Se è vero che a doversi rimettere in gioco sono soprattutto donne di mezz'età, quello che ha reso attuali lavori fino a poco tempo fa considerati troppo umili è un fenomeno trasversale. Lo conferma Marcella Morbiducci, che ha aperto in Toscana 2M Centro Servizi, agenzia che afferisce a Federcasalinghe Obiettivo lavoro, coniuga domanda e offerta e propone formazione garantendo tutela: «Vediamo trentenni con bimbi piccoli e 55enni che hanno perso lavori in fabbrica o supermercati: non hanno una professionalità o un titolo di studio». La prospettiva è un guadagno di poco più di sei euro all'ora, se il contratto è regolare. Ma il nero è ancora tanto, rivelano i dati sull'economia sommersa in Italia dell'ultimo rapporto dell'istituto di ricerche economiche e sociali Eures (eures.it): colf e badanti sono tra le categorie per cui la percentuale di evasione è più alta, sei su dieci lavorano in nero.
Il fenomeno è vero soprattutto per le italiane: lo considerano un lavoro temporaneo perciò preferiscono intascare in nero compensi più elevati, fino a dieci euro l'ora. Accettano così di non avere diritti né tutele, rinunciano a malattia e liquidazione, alle ferie pagate, alla tredicesima. Spesso, fa notare Rina Bressan, che fa sportello presso la sede di Monza delle Acli-colf, accettano anche di essere sfruttate con orari pesantissimi. Diverso per le straniere, negli ultimi anni più attente ai loro diritti: vogliono essere in regola per non rischiare l'espulsione.
Ma c'è richiesta per chi torna a servizio? Secondo Federica Rossi Gasparrini, presidente di Federcasalinghe, quello della badante è un mestiere che non conosce crisi. Il motivo è il progressivo invecchiamento della popolazione italiana. Secondo il Censis, infatti, entro il 2030 nel Paese ci saranno 4,6 milioni di anziani in più; che diventeranno 6,6 milioni entro il 2040.
Fiorella Landro si occupa dello sportello giuridico familiare e del coordinamento donne presso le Acli-colf di Milano. «Spesso le persone considerano questi mestieri l'ultima spiaggia, qualcosa che toccava alle straniere e che svilisce. Uno smacco», interviene. Ogni giorno vede donne tra i quaranta e i cinquant'anni che fanno fatica a riprogettarsi. «La loro è la fascia più a rischio. Hanno bassa autostima, sono rimaste a casa con i figli per dieci anni o più, e quando ne escono scoprono che fuori il mondo è cambiato. Milano e provincia offrono molto, ma bisogna avere una spinta interiore forte per trovare il coraggio di uscire, frequentare un corso, proporsi per un lavoro».
La spinta non è mancata a Silvia Martini, 50 anni, che ha fatto la segretaria per tanto tempo e ha formato il personale dei call center per una multinazionale tedesca.
«Quando l'azienda ha chiuso la filiale di Firenze ho trovato lavori saltuari, sostituzioni in ufficio, vendita di spazi pubblicitari, poi un lavoro stagionale in un agriturismo vicino a Lucca», racconta: «Ma dopo essermi separata ho avuto bisogno di un impiego anche per gli altri mesi dell'anno. Ho cominciato facendo la dama di compagnia presso una famiglia di Firenze; ora durante i mesi invernali sono disponibile 24 ore su 24. Il mio è un lavoro faticoso che non permette di disporre del proprio tempo, un lavoro che può spaventare. All'inizio mi sembrava perfino punitivo: ognuna di noi ha bisogno di uscire di casa, avere contatti con l'esterno, qui invece ti infili in un'altra casa, ti sembra di fare un passo indietro». Un problema di accettazione sociale, come conferma Raffaella Maioni di Acli-colf: «Conosco una signora, lasciata dal marito con un figlio piccolo, una donna che era abituata a star bene, che ora ha trovato occupazione come colf. Famiglia e amici, invece di sostenerla, si vergognano di lei».
La crisi è il primo motore che spinge le italiane verso le professioni di cura, unita al crescente numero di separazioni con figli a carico: quando si è state per anni fuori dal mercato del lavoro le possibilità di trovare altri impieghi sono quasi nulle, e del resto si tratta di lavori che si conciliano con le esigenze di chi, rimasto magari genitore unico, deve badare a figli e casa. È il caso per esempio di Elisabetta, che ha lavorato vent'anni nel reparto spedizioni di una grande casa di moda, poi è rimasta a casa a curare le sue due figlie. Ha ricominciato a lavorare quando le bambine sono andate a scuola: «Avevo già esperienza con i miei genitori anziani e ho cercato in questo settore. Quando ho cominciato io non esistevano i centri servizi e chi voleva trovare lavoro non aveva alcun punto di riferimento».
Appoggiarsi a una delle organizzazioni che tutelano sia le donne che le famiglie che le assumono è invece fondamentale. Rita ha incrociato l'agenzia di Marcella Morbiducci, 2M Centro Servizi, in un momento difficile della sua vita, si era appena separata. «A Napoli stavo male. Ma grazie a un'amica mi sono innamorata della Toscana e mi ci sono trasferita. Io tra i 14 e i 27 anni avevo fatto tanti lavori, andavo a fare le faccende nelle case, nelle mense, sono anche stata tre anni in nero in un ipermercato napoletano. Nel Mugello abitavo a pochi passi dal centro che stava per aprire: sono andata a sentire, ha funzionato. Mi ha dato la sicurezza di poter diventare autonoma».
Ora però è tornata a Napoli ad accudire la madre rimasta sola, vivono con la pensione di reversibilità del padre. «Ora lo faccio per lei, ma so che questo potrebbe essere un lavoro».
E ha ragione, perché la domanda è forte. Diverso per chi si offre come colf: in tempi di crisi ci si arrangia, la prima spesa da tagliare è quella per la donna di servizio. Maria Grazia, di Monza, da ottobre non trova più lavoro: «Ho sempre lavorato come donna delle pulizie. Ho cominciato a 14 anni». Oggi ne ha 46, il marito è in cassa integrazione da settembre. Hanno due figli, di 12 e 16 anni. «Abbiamo consumato tutti i risparmi. Io sto cercando anche tramite agenzie, mi sono rivolta all'Acli-colf , ma non trovo nulla. Mi sono sempre arrangiata, non ho paura di adattarmi, ma non basta la buona volontà. È proprio il lavoro che manca».
Lo conferma Rina Bressan, allo sportello dell'Acli-colf di Monza: «Da oltre un anno non vedo un datore di lavoro, mentre le donne che vengono a chiedere un posto sono almeno una decina a settimana». Lei ha cominciato a fare la colf quando aveva 13 anni, in un paesino vicino a Como. Andando a scuola dai canossiani, negli anni Cinquanta, ha conosciuto l'associazione Acli-colf. E ci è rimasta dentro, corso dopo corso, fino a entrare nel direttivo nazionale. Oggi ascolta i bisogni di donne che vogliono tornare a fare i mestieri a tempo pieno: prima a casa propria, poi a ore presso altre famiglie. E la situazione, persino nella ricca Brianza, è così difficile che lei ha deciso di non chiedergli nemmeno il pagamento della tessera associativa.