Il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudicea doveva deporre al processo contro le cosche a Reggio. Invece, nessuna traccia. Il procuratore capo ammette: «Non sappiamo che fine abbia fatto». Ma si è allontanato volontariamente o qualcuno lo ha fatto sparire?

Che fine ha fatto il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice? È l'interrogativo a cui stanno cercando di dare risposta i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ormai da due giorni non hanno più sue notizie.

Il pentito avrebbe dovuto deporre questa mattina durante l'udienza del processo "Archi-Astrea" che vede alla sbarra le più potenti cosche della criminalità organizzata reggina. Ma dal sito riservato che ospita il collegamento video, si è appreso che il presunto boss non era presente. Ufficialmente l'assenza è stata giustificata con problemi tecnici ma, pochi minuti dopo, è trapelata l'indiscrezione, poi confermata dal procuratore della Repubblica, Federico Cafiero De Raho: «Non sappiamo che fine abbia fatto». Le ipotesi sul tavolo sono due: che si sia allontanato volontariamente, oppure - e questa è la strada più inquietante e concreta - che qualcuno lo abbia prelevato con la forza con l'intento di farlo sparire per sempre.

Del resto, dai primi vertici tenuti in questura ed in procura è emerso come il collaboratore non avesse motivi per far perdere le sue tracce volontariamente. Innanzitutto non aveva con sé una quantità di denaro tale da poter sostenere un'eventuale fuga; in secondo luogo, da tempo ormai, era stata accolta anche la sua richiesta di uscire dal carcere e poter usufruire degli regime di detenzione domiciliare in località protetta. Basti pensare che, proprio per ragioni di sicurezza, non gli era stato concesso neppure di tornare a Reggio Calabria per deporre in aula nei vari processi dove è stato citato quale testimone. Per lui il programma di protezione era pienamente operativo e non ha mai dato segnali che abbiano fatto ipotizzare un possibile ripensamento rispetto alla scelta di collaborare con la giustizia. È pur vero, però, che sulla sua attendibilità si erano addensate nubi sin dai primi tempi.

Dopo la decisione di abbandonare la vita criminale, l'uomo si avviò sulla strada del pentimento il 14 ottobre del 2010 autoaccusandosi degli attentati che presero di mira gli uffici giudiziari di Reggio Calabria e l'abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro. Lo Giudice disse anche di essere il mandante del bazooka fatto ritrovare a pochi metri dalla sede della procura della Repubblica, indirizzato all'allora capo dell'ufficio, Giuseppe Pignatone. Ma il "nano" (così chiamato per via della sua bassa statura) è anche il collaboratore di giustizia che ha accusato Alberto Cisterna, ex viceprocuratore nazionale antimafia, di aver preso dei soldi dal fratello per far scarcerare un altro congiunto.

Tale vicenda, rivelatasi sin da subito priva di ogni fondamento (tanto che si arrivò all'archiviazione del caso), fece scoppiare un vespaio di polemiche e veleni all'interno della magistratura reggina. Anche perché, proprio riguardo gli attentati del 2010, il gip competente lo definì «reticente». Lo Giudice, di fatti, non seppe mai indicare un vero movente che giustificasse un'azione così plateale. Antonino accusò gran parte dei suoi parenti di essere affiliati alla cosca di famiglia, indicò luoghi dove si nascondevano armi e fece luce su una serie di fatti criminali avvenuti negli ultimi anni in riva allo Stretto. Riferì ai magistrati di essere stato anche l'autore delle confidenze che portarono i carabinieri del Ros alla cattura del superboss delle 'ndrine, Pasquale Condello nel febbraio del 2008. Tesi da sempre smentita tanto dai magistrati che condussero le indagini, quanto dagli investigatori dell'epoca.

Insomma, una figura assai controversa quella di Nino Lo Giudice. Un presunto boss di 'ndrangheta senza un territorio definito, un uomo che ha attraverso almeno tre generazioni criminali calabresi, finito negli ultimi tempi in un vortice di veleni che lo ha messo obiettivamente in una pericolosa sovraesposizione giudiziaria e mediatica. Adesso di lui non si sa più nulla. E sono a credere ad una sua fuga solitaria. Nessuno lo afferma apertamente nelle stanze della procura, ma la sensazione più diffusa è che a Nino Lo Giudice possa essere accaduto qualcosa di veramente grave. Qualcuno già da tempo ipotizzava come l'incolumità del pentito fosse a rischio. Ed era una preoccupazione basata sulla circostanza secondo la quale il collaboratore era finito in un vicolo pieno di trappole, forse troppo pericolose e complesse per un uomo del suo spessore criminale.

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