Dopo il caso Di Cataldo molte donne vittime di abusi hanno deciso di raccontare le loro esperienza sui social network. Abbiamo raccolto le loro dolorose testimonianze

Dopo il caso Di Cataldo e le denunce di violenza lanciate su Facebook dalla compagna, Anna Laura Millacci, il tema degli abusi sulle donne è esploso in un confronto piuttosto teso sui media e in rete. Ci si è interrogati sulla veridicità dell'accaduto, analizzando l'autenticità delle foto. Ci si è chiesti perché la donna non si sia prima rivolta alle autorità giudiziarie. Si è sollevata l'obiezione che il gesto, in realtà, fosse dettato da ragioni che esulano dalla violenza in sé. Opportunismo pubblicitario? Necessità di vendetta? Mera invenzione? Ora la vicenda è al vaglio della magistratura che riequilibrerà i fatti.

La denuncia 'Ma Stato non fa nulla'
Intervista ad  Angela Romanin, vice direttrice della Casa delle Donne di Bologna, l'unica associazione che in Italia che monitora costantemente la violenza di genere

Eppure, al di là del caso specifico, l'episodio sembra aver riaperto una ferita. Molte vittime di maltrattamenti sono intervenute nella discussione. Un elemento comune, nelle loro testimonianze, è stata l'obiezione di come, nell'affrontare l'intera vicenda, sembrasse sotto accusa più la vittima degli abusi che non l'autore degli stessi. Una distorsione molto pericolosa. Motivo che ha spinto alcune di loro a parlare. Nei racconti, per ragioni di sicurezza, sono stati modificati alcuni dati sensibili, relativi all'identità delle protagoniste.

LA STORIA DI LAURA
Laura ha 52 anni e vive a Bologna. È una donna forte, indipendente, autonoma. Laureata, lavora come libera professionista. È cresciuta in una famiglia sana, dove tutti rispettavano tutti. Dopo una separazione e un figlio di dieci anni, la donna inizia una relazione con un vecchio amico d'infanzia. Quando l'uomo manifesta il desiderio di sposarsi, Laura, non ricambiando i sentimenti, rifiuta e interrompe la storia. È il principio dell'inferno. Lui irrompe in casa sua, puntandole un coltello alla gola, e minaccia di uccidere lei e suo figlio. Laura riesce a farlo ragionare, afferra le chiavi dell'auto e scappa in macchina fino a Firenze, dal fratello, per chiedere aiuto. Nel frattempo l'uomo le distrugge la casa, incidendo sulla porta d'ingresso "troia". I vicini chiamano i carabinieri per calmarlo e la donna sporge subito denuncia. L'uomo, con un passato da alcolista, vessava anche la precedente compagna. Sono trascorsi 13 anni da allora, ma la persecuzione prosegue.
Laura, a ogni compleanno, riceve un suo biglietto d'auguri con su scritto "Ti penso". "Dopo la denuncia è stata emessa un'ordinanza restrittiva", spiega, "che gli vieta di avvicinarsi a casa mia, ma non è stato possibile impedirgli di minacciarmi dalla strada prospiciente. Perché io ero diventata, nel suo immaginario, 'la donna della sua vita', la bambina conosciuta nell'infanzia e con cui aveva favoleggiato di sposarsi". Laura è fortunata: una rete fatta di familiari, amici e vicini di casa l'ha finora protetta. Ma i carabinieri le hanno spiegato con chiarezza che se non vi sono altri episodi di violenza non si può fare niente. "Si guardi sempre alle spalle", è la regola che le hanno suggerito.
Nel New Jersey e nel Michigan, dove ha vissuto la donna per qualche anno, è in vigore una famosa legge federale, la "Megan's Law" (dal nome di una bimba stuprata e assassinata da un pedofilo), che autorizza le forze dell'ordine locali, dal 1996, a informare la comunità sui soggetti che risiedono nelle vicinanze e si sono macchiati di reati sessuali. "Ciò che più mi addolora - confessa Laura - è che in Italia, pervasa da una cultura profondamente sessista, quando scoppiano episodi di violenza, nel dibattito pubblico ci s'interroga, prima di tutto, sulla donna che prende le botte. Sui motivi che la inducono a non separarsi dal suo carnefice. E, spesso, sono le altre donne che puntano l'indice contro. Ma una donna è, innanzitutto, una vittima. Non ha colpe, anche nel caso fosse debole o folle: nessuno uomo deve sentirsi autorizzato a picchiarla".

LA STORIA DI FEDERICA
Federica ha 33 anni. È di Firenze, ma oggi lavora a Berlino. Si occupa d'informatica. È creciuta in una famiglia "disfunzionale", con un fratello di 10 anni più grande di lei, e un padre violento. "Ha riempito di botte me, mia madre e mio fratello. Detestava le donne, e le considerava delle poco di buono e delle "facili". Ci ha sempre ricoperto di insulti e isolato". La violenza è esplosa subito dopo il matrimonio. "Ha costretto mia madre a lasciare il lavoro e le amicizie. L'ha resa economicamente dipendente da lui. Le urlava 'grassa', 'lesbica', 'puttana' tutti i giorni. Ci ha messo sempre l'uno contro l'altro. Mia madre ha chiesto aiuto ai suoi genitori, ma la mentalità, all'epoca, era quella di difendere il matrimonio in ogni caso". Federica non aveva amici, spesso doveva nascondere i segni delle botte, a scuola. A 13 anni ha tentato il suicidio. "Dopo una denuncia senza seguito, mio padre ha continuato. Un giorno, avevo 22 anni, ho preso la mia borsa e sono uscita di casa, senza tornare più". Nel frattempo, la madre di Federica si è ammalata di tumore, ed è morta. "Anche durante la malattia - ricorda - la violenza è continuata. Quando mia madre ha minacciato di lasciarlo, lui le ha giurato che avrebbe ucciso me e mio fratello". Oggi Federica vive a Berlino, dopo aver vissuto in giro per l'Europa. È in terapia da uno psichiatra: le è stata diagnosticata una neurosi con disturbi d'ansia e attacchi di panico. È fidanzata felicemente da 4 anni. Dopo la morte di sua madre ha interrotto del tutto i rapporti col padre. Oggi lui vive solo a Firenze, insegna ed è rispettato dalla società che ancora ignora che sia l'autore di abusi.

LA STORIA DI BIRGIT
Birgit ha 52 anni ed è nata in Germania. Di famiglia benestante e colta, a 22 anni ha conosciuto il suo ex marito, 29 anni, tossicodipendente e con precedenti penali per rapina a mano armata. Dopo un anno e mezzo di convivenza si sono sposati. Lui non era mai stato violento. Un giorno è tornato a casa ubriaco e imbottito di cocaina e ha iniziato a picchiarla. È stato l'inizio di una lunga quotidianità di botte e abusi. Poi sono nati due gemelli, un maschio e una femmina. Dopo un breve periodo di tregua, la violenza è ripresa. E anche il consumo di droga. Birgit si è rifugiata coi figli dai suoi genitori. Lo ha denunciato e si è trovata un lavoro. Il tribunale ha tolto all'uomo la patria potestà e ha emesso un ordine restrittivo verso la donna e i bambini. Dopo il divorzio, è stato di nuovo arrestato ed è finito in una comunità per tossici. "Ogni tanto - racconta Birgit - gli portavo i figli per farglieli vedere. Lui ha minacciato più volte di uccidersi se non lo avessi fatto. Ha promesso di cambiare molte volte, ma non lo ha mai fatto. Io sono andata a vivere in Italia. Ai miei figli ho raccontato che il padre era in carcere e non poteva occuparsi di loro". Qualche volta Birgit faceva ritorno a casa per visitare la famiglia e portava i bambini dal padre. Ma oggi non c'è più nessun rapporto tra loro e l'uomo. "Tante volte ho pensato di rivolgermi a una struttura d'assistenza. Ma ero così imbarazzata che non l'ho mai fatto. La verità è che mi vergognavo. Mi vergognavo profondamente".

LA STORIA DI ANGELICA
"Essere costrette all'anonimato, doverci ancora tutelare, avere paura è una forma per metterci un tappo in bocca: un'ulteriore violenza". Angelica, 41 anni, un bambino di 6, vive a Genova. Anche lei è passata attraverso l'inferno. Psicologico e fisico. Anche lei ha cercato di uscirne. Ma la sensazione d'essere ancora sotto scacco, a distanza di anni, non si è esaurita. "Ho alle spalle una lunga storia di violenza familiare che di certo non mi ha aiutata, quando ho conosciuto mio marito", ricorda oggi. "Sono cresciuta in Puglia da una famiglia alto borghese, instruita. Mio padre è un chirurgo, riconosciuto socialmente in città. Mia madre una libera professionista che ha sempre lavorato. L'ambiente familiare è sempre stato molto collerico. Botte, violenze e un'educazione rigida. Ma la cosa che mi ha sempre ferita più di tutto è stata l'ostinata negazione del problema, da parte dei miei genitori". A 30 anni Angelica conosce il marito. Un uomo originario della Nigeria. Programmatore informatico, dice lui: la prima di una lunga serie di menzogne. A Genova vivono anche le due sorelle di lui, con cui Angelica, però, non ha rapporti. Sa solo che lui ha avuto due figlie da una precedente relazione. "Questa donna era sempre presente nel nostro matrimonio - racconta - Chiamava in continuazione, col pretesto delle bimbe. Sono iniziati i litigi, lui ha smesso di lavorare, lo mantenevo io. Spariva per lunghi periodi senza comunicarmi dove andava. La quotidianità è diventata insulti e violenza". Angelica non poteva neppure rivolgersi alla famiglia, con cui non intratteneva buoni rapporti. E aveva pochissimi amici. È entrata in depressione e ha iniziato a ingrassare. "Dopo tre mesi che era sparito in Africa dalla precedente compagna, senza dirmi dove fosse, è tornato - prosegue - Mi ha rubato le carte di credito e mi ha lasciato un debito di oltre 50mila euro che ho dovuto in seguito estinguere. Ma io ho continuato a tentare di salvare il matrimonio. A un certo punto sono rimasta incinta. Lui, che non voleva questo bambino, mi ha buttata giù dalle scale, richiando di farmelo perdere. Poi è sparito ancora". Nel frattempo, si sono separati. Quando è nato il bambino, l'uomo è tornato: voleva portarlo con sé a Londra, per farlo lavorare in pubblicità, e potersi mantenere. Ma Angelica ha ottenuto il divorzio, e poi l'affido esclusivo. Oggi vive nel costante terrore che il padre possa tornare a riperndersi il figlio, come ha spesso minacciato. "Il giudice della separazione - racconta - mi ha detto con chiarezza di non farglielo vedere più, se non in presenza di più persone. Perché una volta rapito, spesso accade che sia semplice produrre documenti falsi e sparire per sempre col minore". Angelica, a differenza di altre donne, era sola. "Mi sono rivolta più volte a centri di mediazione familiare, ma la risposta è stata che non c'erano risorse per potermi assistere. Anche la Polizia, quando vai a denunciare, ti accusa del fatto che, in fondo, la colpa è tua. 'Che si aspettava, signora?' - mi hanno detto - è lei che lo ha sposato". Oggi il bambino ha sei anni anni e chiede in continuazione del padre: "È nero, vuole conoscere il padre, le sue origini, la sua identità. E alle sue domande - conclude Angelica - non ho risposte. Non so neanche dove sia il mio ex marito".