C'è Debora Cartisano con sua madre e i suoi fratelli, per ricordare suo padre, Lollò, il fotografo, il calciatore, il commerciante che non si è piegato ai clan. Ci sono i genitori di Celestino Fava. I volti segnati dal tempo e soprattutto dal dolore, vestiti di abiti neri dal '96, da quando il figlio è stato ucciso in una campagna di Palizzi, perché testimone, suo malgrado, di un delitto. Sangue su sangue. C'è Alessio Magro, giornalista e scrittore che racconta la storia di Rocco Gatto, il mugnaio comunista di Gioiosa Jonica ucciso nel '77 dalle cosche locali. Francesca Chirico, anche lei giornalista e scrittrice, racconta di Massimiliano Carbone. Ci sono Mario Congiusta e sua figlia, che ricordano Gianluca, figlio e fratello ammazzato dai Costa, 'ndranghetisti di Siderno. C'è la moglie di Vincenzo Grasso, assassinato a Locri nel '89, la figlia dell'operaio Bruno Vinci di Serra San Bruno, il fratello di Giuseppe Luzza di Vibo Valenzia e il quello del poliziotto siciliano Beppe Montana. E poi ci sono io, che ricordo Giuseppe Tizian, mio padre.
L'elenco dei familiari arrivati in questo scorcio d'Aspromonte è lungo. Anno dopo anno cresce e si aggiungono nuovi cartelli con altri nomi di vittime a segnare le tappe del percorso. Ogni sosta, una storia, un omicidio, un'ingiustizia. La maggior parte dei racconti ha un'amara conclusione: «il giudice ha deciso di archiviare, elementi di prova insufficienti». Vittime due volte. Prima del piombo della mafia, poi di uno Stato che non è stato capace di assicurare giustizia. Il 22 luglio è stato il loro giorno. La giornata delle vittime dimenticate della Locride, donne e uomini onesti uccisi dalla 'ndrangheta.
Con ricorrenza annuale la montagna conosciuta ai più come l'abisso dei sequestrati, regno della 'ndrangheta quando vestiva gli abiti primitivi dell'Anonima sequestri, viene riconquistata. E grazie al coraggio di pochi familiari l'immagine di questo luogo è completamente trasformata. Lungo i sentieri dell'Aspromonte per ricordare Lollò Cartisano e le altre vittime dimenticate della 'ndrangheta, si radunano persone da tutta Italia. Anche Dario Montana, arriva dalla sua Sicilia trafelato per ricordare il fratello Bebbe. Il numero aumenta sempre. Quest'anno oltre 300 persone hanno invaso pacificamente un territorio un tempo inviolabile. Un serpentone colorato in movimento tra dirupi e piccole stradine scoscese. L'Aspromonte è stato liberato.
Il ritrovo è in località "Cersa llampata". Nel dialetto duro di queste zone vuol dire quercia squarciata da un fulmine. Da qui partono studenti, associazioni antimafia, familiari delle vittime, testimoni di giustizia, cittadini. La camminata si preannuncia faticosa, ma nessuno desiste. Cinque chilometri separano il punto di partenza da Pietra Cappa, un imponente monolite che si erge sopra San Luca, il paese dai mille volti inerpicato sui pendii della montagna aspra. Qui è nato lo scrittore Corrado Alvaro. Tra queste vie senza numeri civici e tra i cassonetti della spazzatura sforacchiati dai colpi di proiettile, si nascondono le tradizioni e il folklore della mafia oggi più potente. San Luca , "Mamma" di tutta l'organizzazione, riferimento geografico e culturale del popolo criminale della 'ndrangheta. Da qui è partito il commando che ha trasformato una faida tra famiglie minori in affare di dimensioni internazionali. Da qui si passa per arrivare al santuario di Polsi dove ogni 2 settembre i fedeli festeggiano la Madonna della Montagna, appuntamento sacro per i pellegrini e per i mammasantissima delle cosche che per l'evento si riuniscono e decidono le cariche da assegnare agli affiliati.
Su questi monti, lungo questi sentieri, dal 2003 anni il vento è cambiato. Il controllo asfissiante e lo strapotere dei capi locali deve fare i conti con una forma di Resistenza collettiva unica nel suo genere: la rioccupazione di un luogo simbolo per la 'ndrangheta, l'Aspromonte e Pietra Cappa. Nuovi "ribelli della montagna" che raggiungono il punto preciso in cui i poliziotti hanno ritrovato i resti di Lollò Cartisano, il fotografo di Bovalino rapito e ucciso per aver detto no alle richieste di mazzette. Era il 1993, e il sequestro Cartisano è il diciottesimo rapimento nel piccolo comune di 8 mila anime. Un triste record. Dieci anni di appelli, manifestazioni, richieste, da parte dei familiari, che portano la Commissione antimafia fin dentro il cuore della Calabria.
Nel 2003 la svolta. Debora, la figlia del fotografo, riceve una lettera dell'ex carceriere, che senza firma indica il posto esatto dove sono stati sepolti i resti di Lollò. «Non riesco a guardare più negli occhi i miei figli», scrive nella missiva. Il 25 giugno avviene il ritrovamento. I poliziotti, due di Bovalino e quattro di Siderno, scavano fin dalle prime luci dell'alba nel luogo individuato il giorno prima. Tra loro c'è Donato, un ragazzo pugliese di grande sensibilità che conserva il piccone con il quale ha scavato come una reliquia. Da quel giorno, ogni anno, una processione laica, voluta da Deborah e dalla famiglia, inizialmente riservata ai familiari, colora di speranza il monte dei sequestri. E nel frattempo Donato, diventato uomo e ispettore del commissariato di Bovalino, con la sua confortante presenza e la sua dedizione professionale, assicura la buona riuscita dell'iniziativa.
Coraggio e volontà hanno spazzato via paura e omertà dai sentieri dell'Aspromonte. La faticosa riconquista di quelle lingue di terra, sangue e sassi appuntiti che conducono in cima a Pietra Cappa, da parte di chi crede in una Calabria libera, le vie crucis dei sequestrati trasformate in percorsi di libertà non è notizia che interessi l'informazione nazionale. Ma esiste, è un fatto. E pure rivoluzionario. Finita l'emergenza del periodo dei sequestri, arrestati i latitanti incappucciati nascosti nei covi di montagna, una volta che i vecchi padrini si sono trasformati in moderni boss che vestono gli abiti degli uomini d'affari, l'Italia ha dimenticato quel luogo misterioso e sinistro dove venivano trasportati industriali del Nord e interi pezzi di borghesia locale.
L'industria dei rapimenti ha alimentato le casse delle 'ndrine. Decine e decine di miliardi di lire accumulati in 20 anni. Cash da riutilizzare per l'acquisto di grossi carichi di droga. O da reinvestire in attività economiche legali per comprare macchinari edili, camion per il trasporto terra utili alla costruzione di quartieri sgraziati nei paesi della marina jonica, e non solo. Quando inizia a sfumare la spettacolarità della violenza e del sangue, la Locride e l'Aspromonte perdono appeal per il mercato dell'informazione.
Non troverete istituzioni o ministri che arrivano fino in cima per ascoltare le tante storie di giustizia negata ai familiari che in questa giornata raccontano dei loro cari strappati alla vita dalla barbaria 'ndranghetista. Sotto il sole che s'insinua tra i mirti di questa montagna c'è solo vera rabbia e sincera passione. Amore e ribellione al silenzio. Nessuno spazio per l'antimafia da palcoscenico. E tutto questo va raccontato agli italiani. Come va detto, che ogni anno il sentiero peggiora. E Deborah ha lanciato un appello: «ricostruiamo il ponte crollato che renderà più agevole la camminata». Appello caduto nel vuoto tra gli amministratori locali, ma recepito dai professionisti di Modena, che hanno costituito un presidio antimafia e hanno deciso di sporcarsi le mani e progettare un ponte nuovo di zecca. «Sarà il ponte della memoria», si emoziona la figlia di Lollò.
Nel pieno del pomeriggio il ritorno nel piazzale della "Quercia squarciata". Il corteo torna verso gli autobus, le jeep, le auto. Il passaggio da San Luca è obbligato. Ma il ritorno è meno sorvegliato dell'andata. Infastidisce meno gli abitanti del paesino. Hanno tollerato l'invasione pacifica e non vedono l'ora che tutto ritorni alla normalità. A ciò che per loro è normalità. L'intensità degli sguardi è minore. La tensione è calata. Le anziane signore, vestite con gonne chi blu chi nere a pieghe aperte, lunghe a metà polpaccio, e camicia bianca siedono all'ombra vicino alle loro case. Composte e riservate. Hanno una lunga treccia raccolta a cestello sulla nuca. Il passaggio delle auto le lascia indifferenti. Poi ci sono le giovani. Molte di loro sono vestite lussuosamente, ma solo per fare sfoggio del loro benessere, e non hanno la grazia delle sanluchesi di un tempo. Il loro occhi fissano le auto che provengono dalla Marcia a Pietra Cappa. Quel passaggio disturba più loro che le anziane signore.
Lollò è stato prigioniero su questi monti. Li amava come si ama la donna della propria vita. Accompagnava gli amici, perché di quella bellezza non godessero solo gli 'ndranghetisti e i loro complici. Ecco perché Debora e la moglie Mimma non ci hanno pensato due volte quando hanno saputo dove era stato tenuto prigioniero e ucciso. E hanno voluto percorrere con appuntamento annuale quel sentiero. E sempre più persone si sono unite a loro. E ora quell'enorme masso che ha assistito indifferente all'agonia di Lollò, è diventato il simbolo della Calabria liberata.