Un sacerdote in contatto con il servizio segreto della Santa Sede interviene nell'inchiesta su un omicidio commesso in Calabria. Un mistero su cui proseguono le indagini

L'omicidio Inzitari
È il servizio segreto più antico e più misterioso del mondo, tanto che il fondatore della Cia lo definì “l’Entità”: l’intelligence del Vaticano è una rete di spie che opera nell’ombra da quattro secoli. Ma ancora più sorprendente è scoprire che gli agenti della Santa Sede si sono interessati a un delitto di ’ndrangheta, compiendo un’istruttoria parallela. Un vero giallo: cosa ci fa un giovane prete calabrese che collabora con i servizi segreti pontifici dietro l’omicidio di un diciottenne, ucciso per vendetta da un sicario delle cosche? La storia comincia in una pizzeria di Taurianova, il paesone reggino alle pendici dell’Aspromonte, dove nel dicembre 2009 un gruppo di ragazzi si prepara a festeggiare il compleanno di una sedicenne. Un killer solitario, protetto dal buio della sera, si piazza davanti al locale e impugna la pistola. Spara con freddezza nove proiettili, tutti contro Francesco Inzitari: è il figlio da poco maggiorenne di Pasquale, un politico e imprenditore della zona arrestato nel maggio del 2008 con l’accusa di essere colluso con i clan. Il pistolero è un professionista, rapido, preciso e spietato: finisce la vittima con tre colpi alla testa. Un’esecuzione, rimasta ancora oggi senza responsabili.

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Ma le indagini hanno svelato un’altra trama, che coinvolge boss, sacerdoti e “l’Entità” vaticana. La famiglia del ragazzo assassinato è infatti di Rizziconi, un piccolo centro della Piana di Gioia Tauro: il regno dei Crea, mafiosi di peso della ’ndrangheta, collegati a uomini infedeli dello Stato, politici, medici e professionisti romani. La loro rete di potere sembra avere agganci solidi e oscuri ben lontano dalla Calabria. E incute un muro di paura.

In molti hanno assistito al delitto, quasi tutti coetanei della vittima, ma nessuno ha visto in faccia il killer. Descrivono altezza, corporatura, il giubbotto scuro: «Ho visto un ragazzo di circa 23 anni. È spuntato da una strada vicino al locale e impugnava una pistola. Ha sparato a distanza ravvicinata un colpo all’altezza del petto di Inzitari che stava per cadere a terra. Ho visto quest’uomo di spalle mentre aveva il braccio teso ed impugnava una pistola di grosso calibro di colore nero. Non era incappucciato e non l’avevo mai visto prima», dichiara un testimone ai carabinieri e poi aggiunge: «Dopo aver sparato l’ultimo colpo si è girato completamente, rivolgendo le spalle al morto, ed è scappato a piedi».

Le modalità non lasciano dubbi: sull’omicidio c’è il sigillo della ’ndrangheta. E questa matrice alimenta una coltre di omertà. Lo dimostrano le intercettazioni sui telefoni dei ragazzi, terrorizzati dall’esecuzione. Cinque giorni dopo, dai controlli sui cellulari ordinati dalla magistratura arriva il colpo di scena.

Una delle testimoni riceve in serata un sms: «Ciao Angela, ti sei ripresa un po’? Se vuoi qualcosa non farti problemi a chiedermela. Non preoccuparti: sappiamo chi è stato. A presto». A scriverlo è un giovane prete, Giuseppe Francone, originario di Polistena, che all’epoca aveva 25 anni e affiancava il parroco di Rizziconi.
Angela fa leggere al padre il messaggio che ha ricevuto e che fa riferimento all’omicidio. Il genitore è sbigottito, chiama subito il sacerdote per chiedere spiegazioni. Don Francone gli risponde con voce calma: «Sappiamo chi è». Il papà di Angela lo incalza: «Cioè sapete chi è proprio materialmente?». «Sì sì, anche i mandanti», replica il sacerdote. Lo stupore del padre aumenta: «Mi sorprende il fatto che è una cosa che sai tu ma... le vie del signore sono infinite». Alla fine della conversazione l’uomo passa il telefono alla figlia e don Francone la tranquillizza: «Non ti preoccupare che tutto passa». Poi si mettono d’accordo: non bisogna dire nulla, in particolare a un’altra ragazza, tutti devono stare in silenzio.

Sono informazioni inquietanti. I magistrati della procura di Reggio Calabria che conducono l’inchiesta convocano il prete. Ma don Francone si giustifica e minimizza. Spiega solo di «aver sentito alcune voci in parrocchia sui possibili autori del delitto che sono vicini alla famiglia Crea» e inoltre dice che «dell’omicidio se ne è parlato anche all’interno della Curia (il vescovato di Oppido - Palmi ndr) e le voci sugli autori erano tutte indirizzate alla famiglia Crea, che personalmente non conosco». Gli inquirenti fanno notare che queste indicazioni confermano che Francone è a conoscenza del contesto criminale in cui è nato l’omicidio, ma il religioso - contrariamente a quanto affermato nella telefonata - non indica esecutori e mandanti.

Quando esce dalla procura, il prete sale in auto. Non sa che i carabinieri hanno nascosto una microspia nella vettura. Il sacerdote prende un cellulare, che non è intestato a lui e quindi non è stato messo sotto controllo. La cimice registra solo le sue parole, non è in grado di rivelare le risposte. Don Francone chiama il Vaticano e chiede di parlare con la segreteria di Stato. Poi si fa passare un ufficio di copertura dei servizi segreti del Santo Padre e si presenta al suo interlocutore con un codice numerico di sei cifre: la versione pontificia della sigla 007 di James Bond.

A quel punto domanda di «monsignore Lo Giudice», a cui fornisce una lunga descrizione. Don Francone racconta. Anzi fa rapporto a questo prelato che sembra essere il suo referente superiore. Nelle frasi captate dalla microspia ci sono accenni enigmatici: l’ipotesi che qualcuno, forse dell’intelligence vaticana, possa avere «interferito» con le indagini. Si evocano verbali e archivi, custoditi in Calabria, nei quali il religioso farà un controllo per vedere cosa emerge su Crea e Inzitari. Infine, esponendo al suo superiore la deposizione davanti ai pm, il prete dice: «L’unica cosa che mi hanno chiesto è che se acquisiamo informazioni di fargliele avere». Così sembra far comprendere al suo interlocutore che i pubblici ministeri forse sanno dei contatti con il servizio segreto della Santa Sede. Ma non intende fornire una collaborazione limpida. Sottolinea che prima di passare le informazioni ai magistrati vuole trasmetterle in Vaticano, in modo tale - spiega nella telefonata - che possano «lavorarle» a Roma e solo dopo, quando daranno il via libera, girarle alla procura. La conversazione si conclude rimarcando che è tutto «riservato» e augurando buon lavoro.

Don Francone è alto, bruno, con i capelli corti: ha il physique du rôle dell’agente speciale. L’unica foto disponibile sulla sua pagina Twitter lo mostra mentre stringe la mano a papa Francesco. Nel 2012 ha lasciato la Calabria e si è trasferito in una parrocchia del quartiere Prati, a pochi passi da San Pietro. Si è presentato ai suoi nuovi fedeli spiegando di essere stato vicario in tre parrocchie in Calabria, di aver ricoperto incarichi nella Curia diocesana e di aver insegnato religione nella scuola pubblica. Manifesta umiltà: «Ora il vescovo di Oppido-Palmi mi ha chiesto di specializzarmi in Utroque iure, cioè in Diritto canonico e civile, così da potermi mettere al servizio della diocesi, per cercare di renderla un po’ migliore di quanto già lo sia».

Dal 2009 le indagini sull’omicidio non hanno fatto passi avanti. Il pm Roberto Di Palma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta. I familiari di Francesco Inzitari però si sono opposti e il gip ha accolto la loro istanza, ordinando alla procura nuovi accertamenti che sono ancora in corso.

L’ipotesi investigativa è che dietro l’uccisione del diciottenne ci sia una vendetta. Una punizione di sangue del clan Crea nei confronti del padre, Pasquale Inzitari, che assieme al cognato Nino Princi avrebbe fatto sapere alla polizia come catturare il padrino latitante Teodoro Crea. Teodoro Crea, detto “u Toru” venne arrestato dagli agenti della Mobile nel 2006. Due anni dopo però gli investigatori della Dia nell’ordine di custodia cautelare per Pasquale Inzitari includono le trascrizioni di alcune intercettazioni, dalle quali si può decifrare chiaramente il ruolo nell’arresto de “u Toru”. Poche frasi che potrebbero avere deciso la rappresaglia calibro nove. Ma non è l’unico movente, la ritorsione letale potrebbe scaturire pure da una lite nella gestione dei patrimoni del clan Crea: affidati in parte a Pasquale Inzitari che l’aveva affidata al figlio maggiorenne.

Gli inquirenti ipotizzano che il killer possa essere stato Giuseppe Crea, figlio di Teodoro, latitante dal 2006: un boss emergente nel gotha della ’ndrangheta, che ha ereditato la guida della famiglia. Ma adesso nel loro feudo di Rizziconi i Crea devono affrontare un altro problema. Il coraggio dell’ex sindaco Antonio Bartuccio ha fatto finire in manette tutti i vertici della cosca. Bartuccio non è un politico di professione e ha detto basta di fronte alle pressioni dei boss, denunciandoli con nomi e cognomi. È stato primo cittadino di Rizziconi nel 2010 per circa un anno, scontrandosi con chi esercita il vero potere nel suo paese: i Crea, appunto. Ma non ha accettato di mettere il municipio nelle mani dei clan, compiendo quella che altrove sarebbe una ovvia scelta civica mentre in questa parte di Calabria si è trasformata in un atto rivoluzionario. Dalle sue dichiarazioni è nata l’indagine condotta dal procuratore Federico Cafiero de Raho e dal pm Alessandra Cerreti della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. «Ha collaborato pienamente alle indagini: lo Stato deve difenderlo e si prenderà cura della sua incolumità», ha promesso il procuratore: «Non gli è stato chiesto di abbandonare la sua casa perché lo Stato deve saper proteggere i suoi cittadini migliori in casa loro». Un coraggio ignorato però dalla politica locale. L’attuale sindaco non ha speso una parola in sostegno del suo predecessore. Anzi, in molti a Rizziconi cercano di isolare la famiglia Bartuccio. Mentre non mancano i gesti di solidarietà verso i Crea: segnali espliciti verso i detenuti e i loro parenti rimasti in paese.

È questa rete che copre la latitanza di Giuseppe Crea. E il suo esempio rischia di venire trasmesso al figlio tredicenne. Un ragazzino, che però sembra ricevere ordini dal nonno-capobastone detenuto. E che si mostra ai suoi paesani come l’esponente della famiglia a cui tributare rispetto. Se non fosse così piccolo, potrebbe apparire come investito della carica di reggente della cosca. Un altro primato di questa ’ndrina, così potente e così misteriosa: anime nere che hanno spinto persino i servizi segreti vaticani a scendere in campo.

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