La firma storica dell'Espresso fu il primo a scrivere dell'Armadio della Vergogna e a impegnarsi affinché la giustizia scovasse e punisse i responsabili delle rappresaglie nazifasciste durante la Seconda guerra mondiale. Ecco come lo rievoca un collega che lo conosceva bene e che ha condiviso l'impegno su questo tema
Franco Giustolisi se n'è andato come avrebbe voluto. Combattendo fino all'ultimo per quello in cui ha creduto per una vita. Nella stanza dove lo hanno curato c'erano libri, fogli con appunti, un dizionario e l'inseparabile "Settimana enigmistica".
LEGGI Scompare Giustolisi. Fu il primo a parlare dell'Armadio della VergognaCon me, che con lui ho iniziato a lavorare più di trent'anni fa e ho scritto due libri, le sue ultime parole, che sapeva essere di commiato, erano rivolte al futuro. "Pier Vittorio, prendi in mano tu..." Si riferiva a un'iniziativa per parlare della cosa a cui ha dedicato vent'anni di passione professionale, politica e civile.
Franco voleva giustizia per quella che chiamava la più grande tragedia vissuta dal popolo italiano.
Voleva giustizia per i 15-20 mila civili uccisi dai nazisti e dai fascisti tra il 1943 e il 1945. Per i loro figli, i loro mariti, le loro mogli, i loro fratelli.
LEGGI L'intervista a Giustolisi: 'Tedeschi, punite quei nazisti'Una battaglia combattuta soprattutto sulle pagine dell'Espresso. Poi con un libro,
L'Armadio della vergogna (Nutrimenti ed.) e con mille dibattiti in tutte le parti d'Italia. Con feroci polemiche con chi alla sua sete di giustizia frapponeva esitazioni o piccoli interessi di parte. Perché Franco le cose non le mandava certo a dire. Pensare, dire e agire era, per lui, un tutt'uno.
Il nostro primo e impegnativo lavoro insieme fu un'inchiesta sulle carceri Italiane. Eravamo tutti e due all'Espresso. Lui un quasi sessantenne professionista noto e affermato, già al "Giorno" e alla Rai, a Tv 7. Io un cronista poco più che trentenne che ancora molto aveva da vedere del mondo. Franco mi portò per carceri con un piglio che non dimentico. Entrava nella cella di un condannato per mafia e gli chiedeva: "La mafia esiste?". Affrontava banditi pluriassassini come fossero conoscenti da bar. Con una calma, una serenità e una schiettezza che non immaginavo si potessero avere in carceri speciali come quelli.
La sua ultima uscita pubblica è dello scorso 24 aprile. Un convegno al Senato per parlare di stragi nazifasciste. C'era Pietro Grasso, c'erano cinque sopravvissuti delle stragi, c'era l'attrice Pamela Villoresi che ne recitava i racconti. E poi Giovanni Maria Flick e Marco De Paolis, due uomini che Franco ha stimato profondamente. Franco indossava la cravatta che lui odiava ma che al Senato è obbligatoria. Poco a poco si è allargata da sola, è scesa quasi in sintonia con il suo fiume di parole. Parole dure, ma semplici. Chiedeva, pretendeva solo giustizia nulla più.
Nell'ultimo articolo che ho scritto dopo aver parlato con lui mi chiese di inserire una frase. "Spero che qualcuno raccolga il mio testimone". Sì Franco, il tuo testimone verrà raccolto. Stanne sicuro.