La scena è surreale. Un binario nuovo di zecca si ferma, in aperta campagna, davanti alla rete metallica che segna il confine tra l’Italia e la Svizzera, al valico di Gaggiolo. Tutto intorno gruppetti di operai piantano zolle di prato sul terriccio lasciato in eredità dal cantiere delle Ffs (le ferrovie della Confederazione elvetica), impegnate fino a pochi giorni fa a realizzare la loro tratta di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo collegamento su binario tra il Canton Ticino e l’aeroporto della Malpensa. E che si è invece trasformato nella più classica delle opere incompiute. Nel senso che i 6 chilometri di percorso svizzero sono stati completati con qualche settimana di anticipo sulla tabella di marcia e, dopo un’inaugurazione in pompa magna lo scorso 26 novembre, da metà dicembre entreranno in esercizio. Ma senza portare nessun cittadino del cantone fino all’hub lombardo, dove a regime dovrebbero arrivare 32 convogli al giorno. Già, perché dall’altra parte della rete, territorio italiano, c’è solo una manciata di chilometri di cantiere a cielo aperto.
[[ge:rep-locali:espresso:285511599]]
Ora: non ci voleva un veggente per immaginare che gli svizzeri (partiti dopo di noi e capaci di aprire i cantieri senza mai fermare il traffico ferroviario: chissà cosa sarebbe successo in Italia) ci avrebbero bruciati sul tempo. Ma non a tal punto. Tanto più che l’azienda cui sono stati affidati i lavori dalle ferrovie elvetiche è la stessa scelta da quelle italiane per i 9 chilometri (tra raddoppio del vecchio tracciato e nuovi binari) della Arcisate-Stabio: la Ics Grandi Lavori di Claudio Salini. Non solo: in qualche caso anche i tecnici che hanno guidato i due cantieri sono gli stessi. Il fatto è che le Ferrovie dello Stato (Fs) e l’impresa hanno pensato bene di cominciare a litigare tra loro pochi mesi dopo l’inizio delle operazioni, nel luglio 2010. Così, le ruspe si sono fermate.
Dopo però che tre comuni del varesotto (Induno Olona, Arcisate e Cantello) erano stati sventrati per lo scavo della sede destinata a ospitare il nuovo doppio binario, che in quell’area correrà lungo lo stesso itinerario del vecchio, ma qualche metro al di sotto della superficie stradale. Il risultato è che i circa 25 mila abitanti dei tre paesoni sono ostaggio delle Fs e dell’azienda di costruzioni da qualcosa come 1.600 giorni: c’è voluto molto meno, quindici anni fa, per costruire e inaugurare i 15,9 chilometri del ponte sull’Öresund, lo stretto che separa la Svezia dalla Danimarca.
Il cantiere è talmente vicino alle case che, per sbancare la terra e sistemare le barriere anti-rumore, è stato spesso necessario tagliare balconi, amputare giardini, modificare gli ingressi degli appartamenti, mettere fuori uso le rampe dei garage e persino spostare i citofoni.
Certo, l’azienda si è impegnata a rimettere tutto a posto a fine lavori e intanto a custodire ciò che è stato rimosso (in un container della Ics è ricoverata una mega scultura di Biancaneve, con il suo contorno di sette nani, opera di un cittadino di Arcisate). Altrettanto ovviamente, le Fs hanno pagato i terreni espropriati (16 milioni, suddivisi tra 400 persone) e indennizzato chi è stato costretto a subire un’occupazione temporanea dello spazio (per il semplice disagio, invece, la legge italiana non prevede contropartite).
Resta il fatto che chi, aspettandosi di ricevere benefici dalla nuova infrastruttura, aveva accettato di vivere per un certo numero di mesi tra gru e ruspe è letteralmente prigioniero da quattro anni e mezzo. E rischia di restare nella stessa condizione per altrettanto tempo. Sì, perché, dopo essersi presi a sberle senza sosta, le Fs e l’impresa di costruzioni si avviano a una risoluzione consensuale del contratto. Il che significa che verrà bandita una nuova gara e un’altra azienda dovrà subentrare nei cantieri. Campa cavallo, insomma.
«I valligiani sono gente a sangue freddo: protestano, ma senza trascendere», dice il capo cantiere della Ics. Che ammette: «In altre zone ci avrebbero già bruciato nottetempo dormitori e macchinari». Ma la pazienza rischia di esaurirsi, avverte Angelo Pierobon (Fi), che guida la giunta (con la Lega) di Arcisate e nei giorni scorsi ha annunciato con gli altri sindaci una denuncia all’autorità giudiziaria, non si sa bene contro chi.
L’esemplare vicenda all’italiana si trascina da maggio 2009, quando la Ics si aggiudica l’appalto e mette nero su bianco un progetto esecutivo da 160 milioni, che prevede la consegna dei lavori entro il 14 gennaio 2014. A luglio 2010 l’impresa parte a razzo. Ma nel marzo 2011 arriva la prima doccia fredda: le analisi, che evidentemente nessuno si era preso la briga di fare prima, rivelano la presenza nei terreni di una concentrazione naturale di arsenico superiore ai limiti indicati nelle tabelle ministeriali. Nessun pericolo, s’intende, per le coltivazioni di asparagi che sono un vanto locale, ma la normativa ambientale italiana parla chiaro: a quella terra va trovata una sistemazione. Ed è un bel guaio. Anche perché il progetto prevedeva che gli scavi ne producessero 1,3 milioni di tonnellate, 500 mila da riutilizzare nel cantiere e 800 mila che la Ics avrebbe potuto trasformare in calcestruzzo da impiegare in altre opere o rivendere sul mercato. Ma c’è l’arsenico e non si può fare.
Quelli dell’azienda di costruzioni prendono carta e penna e scrivono al quartier generale delle Ferrovie. Chiedono che la montagna di materiale in esubero (per avere un’idea: distribuita su una superficie di 10 ettari formerebbe uno strato alto 13 metri) venga avviata a smaltimento, come secondo loro espressamente previsto dagli accordi, a spese delle Ferrovie. Che però non hanno nessuna intenzione di farsi carico dei 27,4 milioni necessari e respingono la palla al mittente. Inizia così il braccio di ferro che finirà per paralizzare tutto. Anche per il buon motivo che la Ics ha già riempito di terra i piazzali del cantiere e non può andare avanti negli scavi se non sa dove sistemare il materiale che ne verrebbe fuori.
L’arsenico, per la verità, lo scoprono in proporzioni minori anche in Svizzera, dove però il problema (relativo a 40 mila tonnellate di terra) viene risolto in pochi minuti con uno scambio di mail tra Ics e Ffs, che accetta senza battere ciglio di mettere mano al portafoglio per smaltire il materiale in esubero e far avanzare i binari.
In Italia invece si lavora più che altro a colpi di carte bollate. Con Salini che per tre volte chiede la risoluzione del contratto per improcedibilità dell’appalto e, in subordine, per eccessiva onerosità sopravvenuta. E le Ferrovie che sulla base di due diversi accordi sborsano all’azienda 28 milioni (cioè più di quanto sarebbe costato all’inizio lo smaltimento dell’arsenico) per l’impossibilità di riutilizzare la terra e per i danni dovuti al rallentamento dei lavori.
A un certo punto la soluzione sembra miracolosamente a portata di mano. Nella primavera 2013 qualcuno si ricorda di una cava abbandonata, il sito ideale dove sbolognare le 800 mila tonnellate di terra. Gli enti locali interessati sono d’accordo.
La Ics riprende gli scavi. Ma dura poco. Siamo in Italia: il tempo di effettuare i primi sondaggi e scoprire che la cava è stata usata come discarica e presenta una concentrazione di idrocarburi superiore alla soglia di contaminazione. L’impresa di Claudio Salini ferma di nuovo le ruspe. Questa volta definitivamente, a meno di colpi di scena. E nessuno sa con precisione quanta parte del progetto sia stata realizzata: il 45 per cento secondo l’azienda; il 47 per cento per il committente. Vai a capire.
Si arriva così al 10 novembre scorso. Quando gli svizzeri stanno preparando la cerimonia di inaugurazione della loro tratta. E in Italia il Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) approva un nuovo progetto per il conferimento (a spese delle Fs) delle terre da scavo in esubero, che in base a una normativa dalla logica imperscrutabile non possono essere usate per il calcestruzzo, ma vanno benissimo per formare una collinetta artificiale nei pressi del cantiere.
Solo che nel frattempo la Ics ha aggiornato i suoi conti, sulla base di elementi come l’incremento di forza-lavoro necessario a consegnare l’opera in ventiquattro mesi, il rincaro del gasolio, quello della manodopera (da 18 a 24 euro l’ora tra il 2008 e il 2014), i maggiori oneri di sicurezza nei cantieri per l’allungamento dei tempi di lavorazione. E ora, per finire la ferroviaria che aiuterebbe il rilancio di Malpensa, chiede 52 milioni in più. Le Ferrovie rispondono picche (offrendo un solo milione), propongono una risoluzione consensuale del contratto e annunciano una nuova gara. Insomma, si ricomincia da capo. Come in un eterno gioco dell’oca.