
Cominciamo allora smontando il problema: quali sono le radici della violenza?
«Possiamo individuarne due. Una viene dal passato, ed è l’eredità della cultura patriarcale secondo la quale la donna deve essere sottomessa al volere del maschio, che sia il padre, il marito o il fidanzato: un essere senza autonomia da educare a cinghiate ogni volta che si ribella. A questa violenza endemica se ne aggiunge un’altra. Molti uomini non riescono ancora ad accettare l’emancipazione femminile, non sopportano l’idea di aver perso autorità sulle compagne. E per ristabilire il loro primato reagiscono in modo violento. È una sottocultura revanscista molto più diffusa di quello che pensiamo».
[[ge:rep-locali:espresso:285490200]]
Le vittime parlano spesso delle botte ad amici e parenti, ricevendo come risposta un «non farci caso», «è normale», «capita». Come mai le giustificazioni sono ancora così salde?
«L’idea della sottomissione della donna è un sottofondo che esiste da sempre, lo dimostrano i proverbi e i luoghi comuni che sopravvivono nel nostro linguaggio. Questa tradizione ci porta a sottovalutare i comportamenti violenti, a rinchiuderli nel privato. In passato c’erano almeno dei rigidi binari morali che indicavano dei limiti. Oggi invece non ci sono riferimenti: con la scissione fra riproduzione e piacere sessuale, avvenuta grazie ai contraccettivi, i confini sono diventati più labili, e anche nella coppia scontiamo un’incompetenza affettiva che mette a rischio la nostra capacità di amare. Come anche di reagire di fronte a una passione che diventa ossessione patologica».
«È vero. Le femmine che trasgredivano erano considerate “iraconde” per natura persino dalla Chiesa. Ma le cose stanno cambiando. E oggi la sfida è proprio questa: smontare il dispositivo patriarcale e gerarchico che regola il rapporto fra i sessi».
A chi tocca la prima mossa?
«Il cambiamento dovrebbe partire da chi è sopraffatto. Marx diceva: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Non è che io proponga un pur affascinante “Donne di tutto il mondo unitevi”, ma certamente è dalle donne che deve nascere la risposta. Sono loro a dover spezzare al primo segnale, soffocare alle prime avvisaglie, qualsiasi tentativo di prevaricazione, dal fidanzato che ti dà uno schiaffo e poi piange lacrime da coccodrillo al conoscente che ti costringe a fare qualcosa che non vuoi».
Ma come si insegna a una moglie maltrattata a dire “basta” o a una ragazza a rifiutare delle avance non volute?
«Aumentando la sua capacità di decidere, la sua intelligenza, e aiutandola ad acquisire un senso di dignità di sé stessa. L’autostima non è un lusso, un capriccio: vuol dire saper scegliere, avere la forza di dire no prima che i soprusi prendano piede. Certo: le reazioni di un partner rifiutato possono far paura. Per questo è fondamentale che la risposta delle istituzioni sia forte ed efficace».
Non dovrebbero cambiare anche gli uomini?
«Ovviamente sì. Per questo serve un mutamento di mentalità e di costumi. Dovremmo partire dalla scuola, addirittura dai bambini, insegnando loro la capacità di cercare nell’altro, in ogni relazione, qualcosa che non sia uno scambio - io ti do e tu mi dai - ma una crescita armoniosa, reciproca, un confronto. Uno sforzo comune che ci aiuti a sviluppare una nuova competenza amorosa basata sul rispetto».
E come si impara il rispetto?
«Con l’esempio. Si impara dall’amorevolezza dei genitori e dall’abitudine a discutere quando emergono conflitti. Il rispetto si insegna attraverso le favole, il cinema, la letteratura, non solo ai bambini ma anche agli adolescenti. Far leggere a ragazzi e ragazze Anna Karenina, la sua morte, i pensieri di Vronsky e Karenin rispetto all’adulterio, dà maggior spessore all’idea di “vita morale”: fa capire le conseguenze che ogni nostra azione può avere sugli altri. E poi si trasmette leggendo insieme i giornali in classe, commentando i casi di femminicidio, mostrando cosa succede, ancora adesso, quando una giovane si sottrae al primato del maschio».
I modelli possono arrivare anche dalla politica?
«Oggi è impossibile: i politici ormai sono legati solo alla visibilità, e per diventare celebri non serve essere degli esempi. Basta spararla grossa».
Pensa alle ultime uscite del M5S su Laura Boldrini e le deputate Pd?
«Il fatto che un partito così giovane esprima stereotipi tanto negativi e volgari rispetto alle donne, facendo affiorare anche a livello istituzionale questi cliché, è molto grave, anche se è putroppo comune ad altre forze politiche. Dà un’idea dell’anti-femminismo profondo che cova anche nei Cinque Stelle. Nonostante le buone intenzioni di alcuni».
Finisce che l’esempio lo demandiamo sempre e solo alla scuola, così, già presa in mille difficoltà...
«Questo però è un fatto epocale: stiamo chiedendo alla scuola di riformulare i suoi valori sulla base di quello che è accaduto di nuovo, di illuminare il futuro, mentre ancora non ci siamo depurati dalle scorie di quegli insegnamenti che come le stelle morte continuano a mandarci luce nonostante siano scomparse da secoli. È un problema grande, difficile, ma fondamentale».