
Partiamo dalla critica. Perché secondo lei le “quote rosa” non sono quello che serve oggi alle donne?
«Perché ci riportano indietro di quarant'anni. Ovvero alle prime lotte per l'emancipazione femminile, ancora del 1800, della prima metà del '900: quando cioè la donna era vista come una minoranza sociale per la quale si doveva colmare uno svantaggio, garantendole tutela e valorizzazione. Ecco, negli anni '70 mettemmo in discussione questo approccio. Mostrammo come la discriminazione inizi ben prima, inizi nel momento stesso in cui una donna continua a essere ricondotta al suo ruolo di madre procreatrice oppure di corpo che seduce. Se non mettiamo in discussione la visione maschile del mondo, i modelli imposti anche nella politica e nelle istituzioni dall'uomo, tutti gli sforzi che faremo per ottenere più diritti saranno anche utili magari, a breve raggio, ma non daranno un taglio alle discriminazioni».
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Da qualche parte bisognerà pure iniziare no? Non è necessario garantire maggiore parità nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni?
«Rivendicare un diritto è giusto. Ma se non si mettono in discussione le basi è inutile. A cosa serve integrarsi, entrare dentro le istituzioni, se poi ci si conforma agli stessi modelli imposti per secoli dagli uomini? Cambierà qualcosa? Lo dicono anche tante donne dei paesi del Nord che prendiamo sempre come esempio: no. È vero che lì c'è stata una maggior distribuzione dei ruoli di potere. Ma ottenuta assimilandosi a un sistema maschile. Per cui poi le violenze restano. E le disparità di trattamento continuano. E poi, sinceramente, non penso che basti essere donne per essere “meglio". Ho vissuto in prima persona quanto è difficile iniziare a pensare in modo autonomo dopo secoli di sottomissione, quant'è lungo e complicato distruggere le immagini che gli uomini hanno di noi. È un lavoro profondo. Il Parlamento cambierebbe, secondo me, se entrassero più giovani che hanno consapevolezza di questa storia, che capiscono il peso che il rapporto uomo-donna ha nella società. Non se entrano persone che sono lì solo in quanto di sesso femminile».
La proposta del 50-50 ha raggiunto consensi trasversali ai partiti. Almeno questa è una vittoria?
«Macché! È un'ulteriore sconfitta, semmai. Ci rimanda indietro, ancora una volta. Perché accentua al massimo un'appartenenza di genere a discapito della considerazione dei meriti individuali, delle idee personali. Ovvero ci riporta a una divisione vecchia e, di nuovo, propriamente maschile della differenza: gli uomini si sono sempre pensati come un soggetto neutro, come “l'umano”, mentre le donne sono state per secoli ricondotte forzatamente al loro sesso, al genere compatto del “femminile” all'interno del quale le individualità perdevano importanza. E infatti la proposta sarà anche stata trasversale in Parlamento, riunendo democratiche e berlusconiane, e parliamo di quel Silvio Berlusconi fonte di un intenso dibattito sul rapporto fra donne, sesso e potere solo poche stagioni fa, ma fuori dalle Camere, ha diviso moltissimo. Siamo stufe di doverci compattare solo perché apparteniamo a un genere, e non per le idee che portiamo avanti».
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Le deputate si sono ispirate a due articoli della Costituzione, il 3 e il 57. Quanto conta questo richiamo ai principi fondamentali della nostra Repubblica?
«Citando l'articolo 3 parliamo ancora di discriminazioni, giusto? Allora proviamo ad andare alla radice del problema. La troveremo in un altro articolo della Carta, il 37. In cui si ricorda che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. Ma: “le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Quindi, al di là del fatto che, come ricordano gli ultimi dati Istat, la parità di retribuzione sia ancora lontana dall'avverarsi, la donna ancora una volta viene rimandata a un compito prioritario, che riguarda solo lei e non l'uomo: la famiglia. Se non scalfiamo questo punto, se non chiariamo che anche la cura dei bambini, della casa, degli anziani, è una responsabilità comune dell'uomo e della donna e non un compito “naturale” della seconda, avremo ottenuto ben poco, nella vita concreta».
Le quote rosa sono almeno un tentativo per far entrare più donne in Parlamento, no? E questo non è un buon obiettivo?
«Oh, la quantità ha il suo peso, certamente. Io non sono contraria a priori. Dico solo che se viene fatta in questo modo è solo un adattamento a un modello maschile. È una battaglia che non funziona. E che da fuori può essere vista come un modo per avere una poltrona in più, e non per cambiare le cose. Anche perché, se è una discussione politica, allora dovrebbe nascere e iniziare a far discutere in quell'anticamera del Parlamento che sono i partiti. Se nei partiti le logiche, le nomine, le regole, continuano ad essere maschili, allora è inutile chiedersi quante giovani donne siano state inglobate in quel sistema, perché non porterà a cambiamenti per la nostra vita quotidiana».
Da dove si potrebbe partire allora?
«Battersi per una legge può essere utile se viene vista come occasione per discutere più in profondità sulla società. Accettando ad esempio di portare in politica questioni ancora ricondotte al personale come quelle della cura. Oppure aprendo i luoghi del potere a un confronto orizzontale, come sta facendo la capogruppo Anita Sonego a Milano. E in generale un messaggio positivo, per fortuna, c'è: ed è tutto questo dibattito, che dopo anni di rimozione riporta il rapporto fra uomini e donne in una discussione pubblica e politica e non lo lascia confinato nel privato».