Siamo andati a vedere come procedono i lavori dell'opera cicloplica che dal 2017 dovrebbe proteggere la città sulla laguna dai danni degli allagamenti. Al di là delle polemiche sugli scandali degli appalti e sulla spesa lievitata oltre i costi iniziali, un progetto ciclopico. Forse l'ultimo tentato nel nostro Paese

Mose, la grande avventura per salvare Venezia

Il cantiere del Mose
Pensarlo solo come una diga d'acciaio è piuttosto riduttivo. Lo si potrebbe definire un grande laboratorio biologico a cielo aperto. Ma è anche un esperimento per testare al proprio estremo materiali e soluzioni tecnologiche. Ed è pure una sfida ambientale, che fa convivere uomo e uccelli di passo, rimescolamento di flutti con argini sabbiosi, turismo di massa con la grande bellezza. È, infine, un argomento polemico dirompente per politici e cittadini, terreno di conflitti mai spenti nonostante la costruzione sia avviata da 10 anni (e non si sono spenti anche per questo), fonte dei soliti scandali sugli appalti, sulla spesa lievitata dal budget iniziale da tre miliardi a quasi sei, di indagini della magistratura, tuttora in corso. Tutto questo, a Venezia, ha un nome: il Mose. Che sta per modulo sperimentale elettromeccanico, le paratie sottomarine per proteggere la città dall'acqua alta. Cioè dall'allagamento che colpisce, a partire dal cuore storico di San Marco, l'80 per cento della città, quando pioggia e innalzamento del livello del mare la fanno da padroni.
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Sono andata a visitare il Mose, ho visto quanto è stato già fatto, quello che si sta facendo, e prima di raccontarlo devo fare una premessa ai lettori: non voglio eludere gli aspetti di malaffare, i casi di super stipendi dei manager, le lungaggini e il tema dei costi. Non ignoro tutte le ombre, gravi, che si sono allungate in questi anni sull'esecuzione dell'opera condotta dal Consorzio Venezia Nuova, la rete di intrecci affaristici che le indagini stanno via via scoperchiando e ricostruendo. Semplicemente, vorrei restituire all'opera quello che le pertiene in senso stretto: la sua unicità, il suo carattere sperimentale, il fatto che si tratta dell'unica grande opera pubblica in corso, forse l'ultima. Che dà lavoro a 4000 persone. Un'opera che per la sua portata è stata l'equivalente della nostra corsa sulla luna, l'unico grande sforzo collettivo – di mezzi, di uomini, e forse anche di fede – che il nostro Paese abbia dimostrato di saper fare. Mentre altrove vediamo sfide ardite di modernizzazione, qui da noi ci abbiamo rinunciato. Per mancanza di mezzi, si dice oggi. Ma forse anche perché siamo soffocati dall'assenza di visione, di coraggio, di futuro. E di buone pratiche di gestione.
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Avete presente cosa vuol dire varare una nave? È una cosa che si fa da millenni, anzi è normale routine anche quando si varano quei giganti del mare che oggi superano ogni record di tonnellaggio. L'avventura del Mose, invece, parte da una sfida al buon senso: si tratta di varare dei cubi di calcestruzzo grandi come palazzine di tre piani. Sono i cassoni che si dovranno annidare sul fondo marino, su cui vanno incernierate le paratie mobili, che sono come i ponti levatoi della laguna, gli argini meccanici contro l'avanzata dell'acqua. È questo varo, il loro trasporto, la loro sistemazione a distanza millimetrica l'uno dall'altro l'operazione più delicata. Nell'autunno scorso sono stati sistemati i primi sette cassoni alla bocca di Lido, l'isola più lunga tra quelle che fanno da baluardo all'area lagunare. Ora stanno per partire, per il breve ma pericoloso viaggio dal cantiere alla sede finale, quelli di Chioggia.

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Chioggia è, oltre a Venezia, l'altro centro abitato flagellato dall'acqua alta, ma è anche uno dei più grandi snodi nazionali per la pesca. E quindi il problema dell'acqua si raddoppia: come consentire ai pescherecci di andare e venire anche quando le paratie sono sollevate? Oggi, chi va a Chioggia noterà che venendo dal mare la bocca di porto presenta uno svincolo a destra, un grande bacino di parcheggio. È lì, che in semi-galleggiamento oggi stanno le palazzine pronte al varo. Fino a poche settimane fa quel bacino era a secco, una grande vasca vuota: era il cantiere in cui sono stati costruiti i moduli, due di spalla da agganciare alle sponde, e 6 di centro, per incorniciare i 360 metri di accesso al porto della cittadina resa famosa da Goldoni per le sue baruffe. Una volta liberato dagli immensi cubi di cemento, quel bacino sarà il rifugio dei pescherecci quando le paratie saranno alzate.


Ma cosa sono esattamente questi cassoni? Già contemplati dall'alto a Chioggia, mentre l'acqua marina sale lentamente a riempire lo scavo, una certa impressione la fanno. Ma ancora di più quei parallelepipedi di cemento raccontano la sfida tecnologica di chi li costruisce quando li si osserva dal basso. Acciaio tedesco inossidabile che deve resistere all'usura del mare per cento anni (costa dieci volte quello normale), calcestruzzo italiano (marca Pesenti), tunnel praticabili per percorrerli in tutta la lunghezza anche quando saranno posati nel fondo marino, e quindi aria, corrente elettrica, porte stagne. È come costruire dei sottomarini. Ce ne sono 11 in corso di realizzazione contemporanea nel cantiere, dei 27 totali. Un intero quartiere di una città. Già costruire il cantiere è stata un'impresa: questa vasta area pianeggiante prima non esisteva. È stata strappata al fondo marino, per la superficie di 9 ettari, e doveva essere non solo all'asciutto, ma anche perfettamente stabile, antisismica, liscia, e in grado di reggere senza cedere di un millimetro al peso delle 22 mila tonnellate di ciascun cassone, 60 metri di lunghezza, 9 di altezza, 36 di larghezza.


Questi mostri, una volta costruiti, si devono spostare. Il mare è a 400 metri, ma far camminare questo condominio grigio sul terreno fino a vararlo è un'operazione che non era stata mai tentata. «Per fare quei 400 metri ci vogliono due settimane», dice Enrico Pellegrini, l'ingegnere della Fincosit responsabile del cantiere, «due settimane in cui non riesco a dormire». Per far fare pochi centimetri al giorno ai blocchi di calcestruzzo completi di tutto e montati su carrelli che percorrono i binari, ci sono dei motori norvegesi ognuno dei quali è in grado di sollevare un jumbo. Per la messa in mare, si utilizza come ascensore un'enorme piattaforma (Rolls Royce). «E quando dovranno essere affondati uno di fianco all'altro nella trincea scavata sul fondale, sarà la strumentazione elettronica messa a punto appositamente per questo a controllare che ciascun cassone scenda esattamente a qualche millimetro di distanza dall'altro, per consentire poi di collegarli come fossero un corpo unico, una lunga galleria che può essere attraversata da sponda a sponda», spiega orgoglioso Pellegrini. Problemi e soluzioni che hanno dato origine alla best practice che c'è oggi nel settore, e che dall'estero vengono a imparare.

I cantieri del Mose alla bocca di porto di Malamoco

Dice l'ingegnere capo del Magistrato delle Acque, l'organismo pubblico che sovraintende all'opera: «Su un progetto da 5,5 miliardi di euro, abbiamo già speso 4,8 miliardi. Ora siamo in attesa dei nuovi finanziamenti, e saremo in grado di concludere tutto per l'inizio del 2017». Ma si capisce che tecnologia e forze sul campo permetterebbero di fare anche prima, se i soldi ci fossero. Perché sono proprio la tecnologia e le risorse umane il punto di forza del Mose. «È il lavoro che ha funzionato», ripete l'ingegnere capo, «e la capacità di trovare le soluzioni a problemi che anche in opere civili molto complesse non capitano mai». Come appunto muovere su ruote un condominio di dieci piani.


Una volta sistemati i cassoni, agganciare le paratie mobili sarà quasi banale. Governarle, lo sarà meno. Il sistema nervoso del Mose dipende da un solo cervello, che sta in una palazzina tranquilla nel cuore dell'Arsenale, dove ha sede il Consorzio Venezia Nuova, il concessionario a cui è stata affidata la missione contro l'acqua alta. Da quella palazzina si tengono sotto controllo il meteo e i livelli delle maree, e si dà l'ordine di sollevare i ponti levatoi sottomarini nel momento in cui l'acqua segnala un livello superiore ai 100 centimetri (l'”acqua granda”, quella del 1966, arrivò fino a due metri, così le paratie proteggeranno dall'acqua alta fino a tre metri). Il meccanismo che dà origine al movimento è semplice: a riposo le paratie sono piene d'acqua, e restano coricate sul fondale; quando serve, viene immessa dell'aria compressa, che le svuota e le fa ruotare dalle cerniere e sollevare, come fossero il coperchio di una scatola.


Questo sistema danneggerà Venezia e l'ambiente straordinario della laguna, quella zona di mezzo tra terra e mare? È sempre stata l'imputazione più forte con cui il Mose è stato osteggiato, sin dall'inizio, da molte parti. Proprio per contrastarla, il Consorzio Venezia Nuova ha dato alla sua missione anti acqua alta il senso di un intervento a tutto campo sull'ambiente. Ha realizzato il ripascimento del litorale esterno, riportando la sabbia che il mare erode, ma dopo averla sterilizzata con i raggi ultravioletti; ha ricostruito il reticolo delle barene, quelle lingue di terra mezze sommerse che disegnano l'interno della laguna e che piacciono tanto agli uccelli di passo, come la beccaccia, le pittima, l'avocetta, ma che rischiavano di scomparire; ha usato dei microrganismi come “feltri” per proteggere il fondo. E poi ha bonificato canali, rialzato rive, consolidato argini. Non so se tutto quanto è stato fatto sia poco o molto. So che se non fosse stato fatto oggi la laguna starebbe molto peggio.


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