Sul tema dei migranti, d'attualità a causa dei tragici sbarchi sulle nostre coste, ci sono molti equivoci. Perché chi arriva via mare è solo una porzione di chi entra clandestinamente in Europa. E perché non è vero che i nuovi arrivati 'rubano lavoro'. Come dimostra la Germania, che ha più immigrati di noi ma meno disoccupati

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Iniziamo da un punto che tutti dimenticano: gli ingressi illegali in Europa di migranti che attraversano il Mediterraneo (con il loro carico di disperazione e di morte) sono la piccolissima punta di un iceberg. Nei loro anni di punta toccano le 60mila unità: più o meno il 10% dell’immigrazione clandestina europea.

Come accade sull’altro fronte di guerra delle migrazioni internazionali – il confine tra Stati Uniti e Messico – la stragrande maggioranza dei clandestini è infatti composta in realtà da «overstayers», cioè da persone che entrano legalmente (con un visto turistico, generalmente) e poi prolungano il loro soggiorno oltre i termini di legge, confidando in una regolarizzazione futura dopo un periodo più o meno lungo vissuto sfuggendo alla legge. I fatti danno loro ragione: non si prendono rischi nel viaggio di trasferimento, quasi sempre spendono molto meno di chi si affida alle organizzazioni criminali, possono contare sulla rete di protezione dei loro connazionali che li hanno preceduti (esattamente come don Vito Corleone e Cosa Nostra per i migranti italiani di un secolo fa).
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Non sono (come invece siamo portati a immaginare) i più poveri nelle loro società originarie: hanno livelli di reddito e scolarizzazione tali da consentirgli la conoscenza (magari immaginaria ma proprio per questo ancora più potente) di un altro mondo diverso dal proprio e la progettazione di un trasferimento e di una nuova vita. I più poveri sono invece fissati al loro piccolo ambiente di precarietà quotidiana, dal quale sono incapaci di sollevare lo sguardo. Sono questi ultimi le vittime che si affidano ai trafficanti, credono alle loro bugie e affidano loro tutti i risparmi per affrontare un viaggio pericolosissimo.

I MIGRANTI NON SONO TUTTI UGUALI

Tutti noi possiamo constatare di persona questa differenza: tra le clandestine filippine o peruviane (che appartengono alla prima categoria di overstayers meno poveri) e, per esempio, le ragazze nigeriane che attraversano il Mediterraneo e rimangono schiave del racket della prostituzione. Per le prime la scelta di migrare corrisponde a una strategia, magari disperata ma pur sempre razionale, per garantire la sopravvivenza di un intero nucleo familiare (parte del quale rimane nel paese d’origine). Le rimesse (i soldi che questi migranti mandano a casa) hanno da tempo superato il volume finanziario globale degli aiuti ufficiali che i paesi ricchi elargiscono ai paesi poveri e si avviano a raggiungere il livello degli investimenti esteri delle multinazionali. Un’altro fenomeno poco conosciuto è che circa la metà del totale degli immigrati in Europa torna a casa dopo un periodo medio di cinque anni.
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Per le donne nigeriane che arrivano in Italia la scelta di migrare corrisponde praticamente a una nuova forma di riduzione in schiavitù. Si stima che il giro di denaro mosso dal movimento illegale di esseri umani si collochi ormai poche spanne sotto quello del traffico internazionale di stupefacenti. Gli scafisti che talvolta i nostri poliziotti riescono a catturare rappresentano l’ultimo anello (sottopagato e rischioso) di una catena che spesso lega insieme diverse organizzazioni criminali: da quella stanziata nel paese d’origine, che convince i disgraziati a partire a quella terminale, stanziata nel paese di destinazione, che ne organizza lo sfruttamento e la vita da clandestini senza futuro. Sono queste reti criminali a costituire la più vistosa differenza con le migrazioni storiche del passato e, insieme, il decisivo problema da affrontare con gli strumenti della repressione e della collaborazione tra paesi. Qualsiasi politica vera di gestione del problema migratorio dovrebbe partire da qui.

IL PROBLEMA DEI PROFUGHI

C’è però un’eccezione che negli ultimi tre anni ha acquisito una sempre maggiore centralità: i profughi, frutto della nuova e recente instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite, che dagli anni Cinquanta si occupa del problema, è abituato a gestire tra i 15 e i 20 milioni di persone ogni anno. Vengono da guerre civili endemiche e dimenticate («conflitti a bassa intensità» sono definite nel cinico linguaggio delle scienze sociali, perché non superano i mille morti all’anno) nel cuore dell’Africa e dell’Asia. Occasionalmente anche da guerre più famose (Afghanistan, Iraq).

La politica dell’Onu è di non farli allontanare troppo dalle zone d’origine per rendere più facile il rientro e non dare troppa noia (con malsani attendamenti di bisognosi) ai paesi vicini. Ma in Siria, per esempio, non è stato possibile. Due milioni di siriani (il numero è in costante aumento) sono stati costretti a fuggire dalle loro case e a trovare rifugio nei campi oltre confine in Libano, Giordania, Turchia. In questo caso le nostre distinzioni saltano: nei campi si ritrovano insieme ricchi e poveri, colti e analfabeti. Una piccolissima parte di loro – di nuovo quella più fragile e con meno difese culturali – sale sui barconi della morte.

Da decenni i clandestini sfruttano la confusione tra migrazione economica e migrazione politica: tra le poche cose che conoscono c’è il diritto d’asilo. Chi emigra sa che se riesce a dimostrare di essere perseguitati in patria nessuno può chiudergli la porta in faccia. La polizia tedesca ha sempre avuto un bel daffare a distinguere tra turchi e curdi, tra chi voleva venire a lavorare e chi scappava dalla guerra. Per questa ragione nascono i centri di identificazione, a Lampedusa come altrove: possiamo chiamarli anche lager ma non è che esistano molte alternative. Una delle disgrazie (forse la maggiore) del tema migrazioni è di prestarsi a facilissime propagande ma nello stesso tempo di non essere risolvibile per vie altrettanto facili. Gli imprenditori politici della paura che proclamano «ognuno a casa sua» vanno contro a millenni di storia umana, compresi Giulio Cesare e Cristoforo Colombo. Loro nemmeno lo sanno né gli importa. Ma invece dovrebbe.

DISOCCUPAZIONE? NON DIAMO LA COLPA AGLI IMMIGRATI

Perché gli Stati Uniti e la Germania hanno più immigrati di tutti e meno disoccupazione? Perché più dell’80% degli immigrati in Italia si concentra nel nord mentre la disoccupazione al sud è doppia che al nord? Per sfatare uno di più diffusi luoghi comuni dell’ignoranza (gli immigrati ci tolgono posti di lavoro) i sociologi usano la formula 3D. Non si tratta della terza dimensione ma più semplicemente di una sigla composta dalle iniziali di dirty, dangerous, demanding (sporco, pericoloso, faticoso): sono le caratteristiche delle occupazioni che gli immigrati vanno a riempire – dai badanti ai raccoglitori di pomodori – e che i nostri giovani con titolo di studio cercano di evitare.

Esiste un mercato del lavoro duale: uno per i nativi e uno per gli immigrati. Ecco perché negli Stati Uniti la disoccupazione, nonostante la crisi bancaria, è al 6% con 46 milioni (il 15% della popolazione) di immigrati. E in Germania al 5% con 10 milioni (12% della popolazione) di immigrati. Forse dovremmo pensarci, noi italiani che cerchiamo di dare la colpa della disoccupazione (al 13%) ai 5 milioni di immigrati (9% della popolazione). E dovremmo pensare di più al fatto che, secondo le ultime stime, quei cinque milioni di immigrati garantiscono il 12% del nostro prodotto lordo (molte pensioni dei tanti vecchi 'indigeni' …) ma solo il 3% delle entrate fiscali: perché dirty, nel nostro caso, significa sommerso e la colpa è del datore di lavoro quasi sempre italiano.

Sarebbe una svolta epocale e una prova di grande trasparenza se governo e imprenditori fissassero ogni anno la quota di immigrati di cui la nostra base produttiva ha bisogno perché non è soddisfatta dall’offerta di lavoro interna. I clandestini gestiti (con più soldi dall’Unione Europea di quanti oggi non arrivino) sulla base di questa mappa. I criminali spiati, inseguiti, catturati e condannati con la collaborazione dei governi stranieri. I migranti liberati dalla schiavitù e dai falsi sogni. I profughi aiutati a ritornare nei loro paesi. Le guerre civili portate al tavolo del negoziato grazie all’eliminazione delle milizie che tengono in ostaggio le popolazioni e la pace. Come un dannato labirinto, la globalizzazione mostra la concatenazione di ogni problema. Possiamo farcene sopraffare. Oppure possiamo scegliere da dove partire e incominciare a dipanare la matassa.