Il mar Jonio minaccia il più grande mosaico ellenistico conservato in Italia. E il fango stenta a lasciare i muri degli scavi di Sibari. Così due grandi testimonianze del passato sono a rischio. Per incuria e mancanza di fondi. Viaggio da Kaulon all'antica colonia della Magna Grecia

Il canneto che domina la duna riesce a resistere faticosamente alla forza del vento. Le sue radici sono ormai sospese nel vuoto, perché la terra che gli dà stabilità sta lentamente sbriciolandosi. Eppure, quella pianta così fragile è oggi l’ultimo vessillo del sito archeologico di Kaulon.

Siamo a Monasterace, centro jonico al confine tra le province di Reggio Calabria e Catanzaro. Una distesa di circa 30mila metri quadrati, che racchiude il mosaico ellenistico più grande ed articolato della Magna Grecia, risalente ad un periodo compreso tra le fine del IV e l’inizio del III secolo avanti Cristo. Un patrimonio dell’umanità che rischia di scomparire entro pochi mesi.

Il parco archeologico di Kaulon infatti si trova ad un tiro di schioppo da una spiaggia incontaminata. Un paradiso trasformatosi in inferno durante la notte del 3 febbraio scorso, quando una violenta mareggiata ha schiaffeggiato per ore la duna che sovrasta la battigia di Monasterace, scavando fratture profonde.

Il mare ha ingurgitato terra e storia: un tratto del muro di cinta è andato perduto. I suoi pezzi sono finiti sulla sabbia, altri nelle acque dello Jonio. Così è scomparsa l’antica porta a tenaglia, vecchio accesso alla città ellenistica. L’altare, invece, rimane sospeso sullo strapiombo, mentre alcuni basamenti sono già rotolati inesorabilmente fino alla battigia. E poi ancora parti di edifici, pozzi e reperti vari. Tutto perduto.

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A distanza di cinque mesi, nulla è cambiato. Quei piccoli scogli posti a riparo del sito archeologico poco hanno potuto di fronte alla potenza dello Jonio. Sono stati sovrastati da acque penetrate in profondità. Talmente tanto che le frane sono continue: ogni giorno qualche centimetro dell’antico tempio dorico finisce in spiaggia, tra la disperazione di archeologi e volontari.

Ma a Monasterace, nonostante tutto, si continua a lavorare. Da diverse settimane sono riprese le attività di scavo nell’area delle terme ellenistiche. Ad occuparsene è Francesco Cuteri, colui il quale – nel 2012 – ha riportato alla luce gli antichi mosaici raffiguranti draghi e delfini. Cuteri coordina un gruppo di studenti provenienti da Italia e Argentina. Sfidano il sole di luglio e, armati di pale, picconi e martelletti, aspettano pazientemente di restituire al mondo i tesori dell’antica Grecia. È il tintinnio dei loro attrezzi a scandire il ritmo delle giornate. Le attività sono finanziate da giovani del luogo, che hanno rinunciato alla paghetta settimanale per “investirla” in cultura. Con poche centinaia di euro si dovrà coprire qualche mese di vitto e alloggio. Da qui a breve, però, il lavoro potrebbe essere spazzato via dai primi temporali autunnali. Perché il parco ormai dista solo pochi metri dal precipizio.

Percorrere le vie di Kaulon, oggi, è rischioso. La terra, particolarmente friabile in prossimità della spiaggia, si sbriciola ad ogni passo. «Non si sporga», ripete quasi ossessivamente Cuteri. Lui, che conosce ogni centimetro del luogo, ci guida nel viaggio della desolazione. Dall’alto si notano grandi pietre adagiate sulla sabbia. «Dobbiamo prestare molta attenzione», incalza l’archeologo: «perché sono frequenti i casi di persone che arrivano in spiaggia per trafugare i reperti». Del resto, non vi è più alcuna protezione. La staccionata che delimitava l’area è crollata quasi interamente. Scendere fino alla battigia è impresa ardua, perché l’antica scaletta è pericolante. Ma lo spettacolo che si apre, dando le spalle al mare, lascia tramortiti. Il costone è completamente fratturato, tanto che qualche animale riesce addirittura a farci il nido stagionale. Cuteri passeggia sulla spiaggia e, giunto in prossimità dell’altare, confessa: «Da tempo non tornavo qui. Non ci riesco, fa troppo male». Lui l’allarme l’aveva lanciato diversi mesi fa, così come la direttrice del museo, Maria Teresa Iannelli. Hanno scritto lettere, rilasciato interviste; si sono recati ovunque per chiedere interventi tempestivi. Nulla di fatto. L’unico risultato ottenuto è stata una barriera protettiva di 32 metri, che la Provincia di Reggio Calabria ha realizzato con un finanziamento di 55mila euro. Spiccioli per un’area di 30mila metri quadrati. Dei 300mila euro promessi da Roma, invece, non vi è alcuna traccia.

Sono le immagini a raccontare Kaulon: un luogo che frana in maniera quasi irreversibile. Se si vorrà salvare il parco archeologico, occorrerà intervenire adesso, prima che arrivi la stagione delle piogge. «Bisogna mettere in sicurezza la parete della duna», continua Cuteri: «ma è ancora più importante realizzare delle opere a mare per spezzare la forza dei flutti, che il prossimo inverno saranno devastanti. Se le cose rimarranno così, tra pochi mesi l’antica città sarà cancellata per sempre». Anche la “Casa Matta”, luogo che ospitava il pavimento musivo policromo, inizia a sbriciolarsi. Proprio lì, a pochi metri, il canneto che domina la duna continua a sfidare la furia del vento che sferza il litorale. Cuteri guarda con timore quella pianta. Sa bene che il suo sradicarsi sarà l’ennesimo segnale di un lento morire; sarà la rivincita di Poseidone, che tornerà ad appropriarsi di draghi e delfini custoditi gelosamente per oltre tre millenni.

Prima di congedarci, l’archeologo si concede un’amara riflessione: «In molti mi ripetono: “Speriamo che Kaulon non diventi la nuova Sibari”. Io rispondo che, invece, mi auguro Sibari non diventi la nuova Kaulon». Ed è proprio nel comune di Cassano allo Ionio che ci rechiamo lasciando Monasterace.

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Un parco, tre città

Bisogna percorrere oltre 220 chilometri in auto, per raggiungere il parco archeologico di Sibari che, nel gennaio 2013, fu sommerso a seguito dell’esondazione del fiume Crati. Gli argini si ruppero quasi fossero di cartongesso e diversi reperti, risalenti anche al 720 a. C., andarono perduti.

L’area si estende per decine di ettari e racchiude un vero e proprio tesoro dell’archeologia. Gli scavi riguardano tre città sovrapposte: Sybaris, Thurii e Copia. Ma dopo l’alluvione dello scorso anno, ancora oggi, il parco del Cavallo è una distesa di resti ammantati di una coltre di fango secco ed incrostato. Gli interventi di somma urgenza hanno consentito una pulizia che non va oltre il 25 per cento del sito. Per il resto occorrerà attendere l’utilizzo di fondi europei già stanziati, ma ancora non spesi. Colonne, terme, case e finanche antiche strade di grande comunicazione: tutto appare come una grande placca di fango. Solo i mosaici sono stati ripuliti in tutta fretta. Volontari e specialisti non hanno esitato a calarsi nella melma, pur di preservare capolavori destinati ad un veloce sgretolamento.

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Il Crati adesso fa un po’ meno paura, anche grazie all’avvio dei lavori per la costruzione dei nuovi argini. Guai, però, ad abbassare la guardia.

Alessandro D’Alessio è l’archeologo che sta tentando di dare nuovo splendore al parco del Cavallo. Non sembra molto preoccupato della situazione attuale: «Il fango», spiega: «non ci impensierisce. Certo, la paura è stata parecchia quando l’acqua ha invaso tutto, ma queste città sono rimaste sepolte per migliaia di anni. Paradossalmente adesso sono ancora più protette. La fruizione turistica è compromessa, ma grazie ai fondi già previsti, per un importo di diversi milioni di euro, contiamo, entro l’estate 2016, di poter consegnare il parco di Sibari in una condizione ottimale». Occorrerà cambiare il sistema che consente al sito di difendersi dall’acqua. Fino ad oggi lo hanno fatto delle pompe che funzionano a gasolio con costi annuali da capogiro.

Nel futuro si sperimenteranno delle trincee drenanti che dovrebbero dare maggiori garanzie, con una spesa assai più contenuta. Ma contro la furia del Crati serve ben altro. E se le opere di consolidamento degli argini non dovessero essere sufficienti, nel prossimo inverno i rischi di una nuova esondazione sarebbero concreti. 
Insomma, se Kaulon piange, Sibari di certo non sorride. La drammatica situazione dei siti archeologici calabresi, d’altra parte, continua a dimostrare il cronico ritardo dello Stato nella capacità di salvaguardia dei beni culturali.
La terra friabile di Monasterace e l’odore d’umido stantio del parco del Cavallo restano addosso per giorni. La loro imponenza somiglia tanto ad una preghiera silenziosa, una disperata richiesta d’aiuto. Perché il rischio che questi inestimabili tesori possano scomparire per sempre è qualcosa più di una pessimistica previsione.

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