Così funzionava la macchina del fango
Vittorio Feltri ricostruisce il caso Boffo
Bertone, Sallusti, Santanchè. E Bisignani. Ecco i protagonisti del falso scoop che fece saltare il direttore di “Avvenire”. E che Feltri conferma ai pm di Napoli e a “l’Espresso”. A passare le carte al quotidiano di Berlusconi furono la “pitonessa” e il faccendiere, legati anche in affari
«Bertone, Bisignani, Santanchè... Alessandro Sallusti mi disse che la fonte della velina su Dino Boffo era il cardinale Tarcisio Bertone, che aveva l’aveva passata a Luigi Bisignani e Daniela Santanchè. Che l’avevano data a Sallusti. È questo quello che ho raccontato ai magistrati. Davanti a loro si deve dire la verità». Vittorio Feltri non ci pensa nemmeno un attimo a rispondere alla domanda, e in un’intervista sconvolgente conferma a “L’Espresso” quello che lui stesso confidò due anni fa a un giudice della procura di Napoli, raccontando per la prima volta l’origine del finto scoop che costrinse l’allora direttore di “Avvenire” alle dimissioni.
Nel 2012 il pm Gianfranco Scarfò chiamò Feltri nei suoi uffici con vista Vesuvio, per interrogarlo in gran segreto come persona informata sui fatti: il magistrato stava cercando di capire chi fosse illecitamente entrato nel casellario giudiziario per cercare informazioni su Boffo, e chiese al giornalista qual era la genesi della notizia infamante pubblicata in prima pagina il 28 agosto del 2009 su “Il Giornale”, che descriveva l’allora direttore del quotidiano cattolico come «un noto omosessuale attenzionato dalla polizia».
«Dissi al pm che la catena era Santanchè, Bisignani, Bertone...è quello che mi fu detto da Sallusti, quando lui era condirettore» racconta Feltri «Dopo, non so se sia vero. Io ero il direttore, e mi sono fidato senza pormi tanti problemi. Mi sembrava che...fosse assolutamente credibile. Però io non so se posso dirvi queste cose, il magistrato mi disse di non raccontarle a nessuno...Anche se dopo un anno forse si possono dire».
A cinque anni di distanza dalla pubblicazione della velina che distrusse la carriera di Boffo e annichilì quella parte della Chiesa avversa alla morale libertina dell’allora premier Silvio Berlusconi, “L’Espresso” è in grado di ricostruire la vicenda, raccontando per nomi e cognomi presunti mandanti, complici e esecutori materiali dell’assasinio mediatico di Dino Boffo, una delle prime vittime di quella “macchina del fango” che per anni è stata usata dal potere berlusconiano per contrastare i nemici politici, i giudici non allineati e gli avversari considerati pericolosi. [[ge:espresso:foto:1.171900:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2014/07/02/galleria/da-prodi-alla-carfagna-tutti-i-big-nel-mirino-1.171900]] Andiamo con ordine, partendo dall’estate del 2009. Berlusconi è all’angolo, schiacciato dagli scandali di Noemi Letizia e di Patrizia D’Addario, la prostituta barese che registrò i suoi incontri con l’ex Cavaliere nel lettone regalato da Putin. I suoi giornali cercano di difenderlo, ma senza grandi risultati. Per la Chiesa il premier è indifendibile, e il giornale della Conferenza episcopale italiana non può tacere: Boffo prima parla di «uno scenario di desolazione che non convince e non piace al paese reale» poi firma un editoriale in cui parla di «disagio, mortificazione e sofferenza» causata dalle «tracotante messa in mora di uno stile sobrio».
Una settimana dopo, il 19 agosto, Mario Giordano viene fatto fuori dalla direzione del “Giornale”, quotidiano della famiglia Berlusconi: i tempi sono duri, qualcuno deve fare il lavoro sporco, e Giordano è considerato troppo mordibo. Berlusconi richiama a Via Negri il suo giornalista preferito, Feltri, uno tosto, capacissimo in battaglia di colpire duro e veloce, con o senza guantoni. A nemmeno dieci giorni dal suo insediamento il direttore fa capire di che pasta è fatto: il 28 agisto spara in prima pagina una notizia devastante su Dino Boffo. Nell’editoriale e nel servizio di cronaca il direttore di “Avvenire” viene accusato di essere un molestatore, nonché «un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni».
Feltri pubblica due documenti. Uno, autentico, riguarda una faccenda vecchia (già raccontata da un blog di Mario Adinolfi nel 2005, dalla “Nuova Agenzia Radicale” nel 2006 e da “Panorama” nel 2008) che “Il Giornale” vende come scoop nuovo di zecca: «il supermoralizzatore Boffo» nel 2004 è stato querelato da una ragazza di Terni (di nome Anna) per molestie telefoniche, una vicenda che si concluse senza processo con una multa da 516 euro e un decreto penale di condanna. Il secondo documento è una velina anonima, mai stato agli atti del Tribunale di Terni, in cui Boffo viene indicato come un omosessuale «attenzionato dalle forze dell’ordine». “Il Giornale” la definisce un’informativa di polizia, e azzarda anche una tesi: Boffo avrebbe avuto una relazione non con Anna, ma con il suo fidanzato.
La velina è un falso totale, una calunnia che Feltri spaccia per notizia vera. Si inserisce in una strategia della disinformazione messa in moto dai media berlusconiani a partire dal 2009, un meccanismo a volte basato sull’inganno e sul raggiro, con l’intento finale di manipolare l’opinione pubblica e distruggere la credibilità di un avversario politico. Una tecnica che, come spiega bene lo studioso Manuel Castells, gli americani chiamano «character assassination», che porta alla distruzione della reputazione di un individuo considerato scomodo o ostile. La velina è parte di mini-dossier contro Boffo che qualcuno aveva già fabbricato e mandato in busta anonima ad alcuni vescovi italiani, qualche mese prima che venisse pubblicata su “Il Giornale”.
Il materiale diffamatorio inviato ad alcuni membri della Cei conteneva sia la fotocopia del decreto penale di condanna già pubblicato un anno prima da “Panorama” (quando, va ricordato, la notizia non fece alcuno scalpore) sia la lettera anonima intestata a «Sua Eccellenza» piena di allusioni, errori grammaticali e falsità. Se i vescovi non gli daranno alcun conto, tanto che monsignor Domenico Mogavero, uno dei destinatari, la cestinò valutandola «una forma di avvertimento che da siciliano definirei di tipo mafioso», qualcuno in Vaticano la invece fa arrivare sulla scrivania del direttore de “Il Giornale”. Secondo Feltri la manina aveva all’anulare l’anello cardinalizio di Bertone, al tempo segretario di stato della Santa Sede e potente braccio destro di Benedetto XVI.
«C’era una fotocopia dove si raccontavano certi fatti, io ho dato un’occhiata» ammette Feltri a “L’Espresso”. «Quando ho saputo che la fonte era quella ovviamente mi sono fidato. Poi non lo so...visto quello che è successo facevo bene a non fidarmi. È facile dirlo dopo, ma quando il tuo condirettore ti viene a dire una cosa del genere, non è che metti in dubbio la sua parola. Nel pomeriggio mi hanno detto che era tutto tranquillo, tutto normale. Io ho dato il via alle pubblicazioni senza la minima preoccupazione. Ho detto al magistrato che Sallusti mi disse che l’origine di quella velina era Bertone. Non potevo fregarmene di questa roba, mi ha detto che la fonte, la provenienza era quella, mi sono fidato. Evidentemente ho sbagliato, ma capita, nella vita, di fidarsi».
Oltre a Bertone, Feltri ha detto al magistrato che Sallusti gli fece anche i nomi dei “passacarte” della velina, cioè Luigi Bisignani e Daniela Santanché. Una volta chiamato davanti al magistrato, l’attuale direttore de “Il Giornale” ha negato in toto la versione del suo vecchio maestro. Di certo nell’agosto 2009 la Santanchè ha ottimi rapporti con Sallusti e Feltri: è lei che, attraverso la sua società Visibilia, curava la raccolta pubblicitaria prima di “Libero” e poi de “Il Giornale”. Di sicuro, inoltre, Luigi “Gigi” Bisignani, faccendiere condannato in via definitiva per associazione a delinquere, ha con la Santanchè un link privilegiato. Come ha spiegato lo stesso Bisignani a Henry John Woodcock nel corso degli interrogatori sull’inchiesta P4, ne è stato infatti prezioso consigliere: il lobbista non solo suggerì all’intima amica di approdare nelle file del partito di Francesco Storace, “La Destra”, ma in seguito si spese molto pure per farla tornare nell’alveo berlusconiano.
Operazione riuscita, tanto che Bisignani spiaga ai pm di essere riuscito a farle ottenere un incarico da sottosegretario di governo. «In questo scenario politici si innesta la mia attività collaborativa senza fini di lucro a favore della Santanchè per le sue attività nel settore della raccolta pubblicitaria» spiega a verbale «In pratica, feci stringere i rapporti tra la Santanchè e gli Angelucci (proprietari di “Libero”, ndr). Le consigliai la costituzione di una vera e propria concessionaria, denominata Visibilia. Che poi ha iniziato a raccogliere pubblicità per “Il Giornale”, in concomitanza del passaggio di Feltri dalla direzione di “Libero” a quella de “Il Giornale”». Parafrasando Carl von Clausewitz, la macchina del fango appare come la prosecuzione della politica con altri mezzi. Nel caso Boffo, Feltri e coloro che macchinarono la trappola vinsero la battaglia: il 3 settembre 2009, dopo una settimana di cagnara mediatica, il direttore di “Avvenire” dà le dimissioni. «La lezione» scrive il New York Times «è che nessuno può osare sfidare Berlusconi, nemmeno la Chiesa».
A nulla varrà la retromarcia del diretur due mesi più tardi («dalle carte non si parla di omosessuale attenzionato, si trattava di una bagattella e non di uno scandalo»), né la sospensione dell’albo professionale di Feltri per tre mesi deciso dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia. L’assasinio mediatico è compiuto. Sulla scena del crimine oggi un investigatore può facilemente rilevare i bossoli dei proiettili (la falsa informativa), le impronte digitali dell’arma che ha sparato (sono di Vittorio Feltri e del suo vice di allora, Alessandro Sallusti) e i mandanti: se il giornalista ha raccontato la verità ai pm e a noi de “L’Espresso”, tra i sospetti c’è un massone pidduista, un potentissimo cardinale di Santa romana Chiesa e il consigliere politico più influente di Silvio Berlusconi.