L'economia ha un disperato bisogno delle donne, non come compratrici, ma come forza lavorativa. E, come sostiene anche il "Financial Times", occorre uguaglianza nelle opportunità, nell'accesso alle carriere e nelle retribuzioni. Mentre pure gli uomini stanno inziando a convincersene
Se ci si mette perfino il
“Financial Times”, non esattamente ?la lettura preferita delle Femen, a sostenere che è imperativo dare pari rappresentanza alle donne nel mondo del lavoro, vuol dire che qualcosa sta cambiando sul serio. Che
sta nascendo davvero quell’ossimoro vivente che è il “maschio femminista”. Cagionevole e raro come un figlio della provetta, per ora: ma crescerà e si moltiplicherà, per la sua e la nostra soddisfazione.
Il rapporto del quotidiano inglese “Women in Business”, uscito a settembre, racconta in soldoni questo: che l’economia ha ?un disperato bisogno delle donne. Non come compratrici, attenzione: come workforce, forza lavorativa, totalmente alla pari con gli uomini per opportunità, accesso alle carriere, retribuzione. Dietro questo appello singolarmente femminista del FT c’è anche, molto probabilmente, la riflessione suscitata da un recente rapporto del McKinsey Global Institute. Che ha analizzato l’output economico di 95 Paesi nel mondo (effettivo e potenziale), concludendo che se uomini e donne contribuissero allo stesso modo alla forza lavoro - lavorassero lo stesso numero di ore, avessero uguale paga e uguale rappresentanza in tutti i campi - questo aggiungerebbe 28 mila miliardi di dollari al Prodotto interno lordo globale entro ?il 2015: ovvero una crescita del 26 per cento. Mentre oggi, secondo lo studio McKinsey, le donne costituiscono metà della popolazione mondiale ma rappresentano soltanto il 37 per cento del Pil globale, poco più di un terzo.
Maschi femministi sono quelli che sostengono la campagna “HeForShe” (lui ?per lei), movimento nato in seno alle Nazioni Unite, e di cui si è fatta portavoce la giovane attrice
Emma Watson: un movimento all’insegna della solidarietà tra ?i sessi, il cui scopo è la “gender equality”. Lo slogan è: uniamo gli sforzi, una metà dell’umanità in aiuto dell’altra metà, per il beneficio di tutti.
Ma non ci sono solo grandi campagne, dietro le prese di coscienza. Esistono ?le vite individuali e l’inarrestabile formarsi delle convinzioni dei singoli. Una bella storia di maschio femminista la racconta la rivista culto dell’America intellettuale, “The Atlantic”, nel numero di ottobre. Titolo: “Why I put my wife’s career first”, perché ho messo al primo posto la carriera di mia moglie. Qui l’autore,
Andrew Moravcsik, docente di Politica ed Affari Internazionali alla Princeton University, racconta la sua vita da “lead parent”, modo intelligente ?per definire quello che noi, scioccamente, chiamiamo “mammo”.
Un’avvertenza prima di commuoverci tutti: qui non stiamo parlando di Mr e Mrs Smith, ma di ?un signore che comunque insegna a Princeton, e di una moglie che si chiama Anne-Marie Slaughter, notissima soprattutto negli Usa per aver sollevato enorme dibattito (sempre su “The Atlantic”) su quanto sia difficile per le donne raggiungere il work-life balance, l’equilibrio tra vita professionale e privata. ?Il risvolto paradossale, che il marito sottolinea con un certo umorismo, è che la polemica ha proiettato la moglie sul palcoscenico, e blindato lui nel ruolo ?di “genitore principale”. Che Moravcsik comunque, da buon maschio femminista, rivendica con orgoglio, passione e convinzione. Adesso dobbiamo solo aspettare che l’onda arrivi dalla Princeton ?University in Italia.