Dall'aula

'Ndrangheta emiliana, al via il maxiprocesso. In aula solo quattro vittime del clan

di Giovanni Tizian   28 ottobre 2015

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Zona blindata. Oltre 200 imputati. Boss, gregari, imprenditori, politici. Comincia Aemilia. Con poche vittime presenti, gli avvocati che negano l'esistenza della mafia nella regione e i giornalisti tenuti a debita distanza

È iniziato alle 10.50 il maxiprocesso alla 'ndrangheta emiliana. Quasi due ore e mezzo di ritardo. Fuori piove e il cielo è cupo.  Nel padiglione 19 della fiera di Bologna, trasformata in aula bunker per l'occasione, sono presenti più di 300 persone. Ma è una stima, perché l'accesso alla “zona rossa” è vietato alla stampa. Una cinquantina le richieste di parti civili. Tra queste: Ordine dei giornalisti, Cgil, Cisl, Uil, Arci, Legambiente, enti locali, Regione, Libera, Avviso Pubblico. Solo quattro, invece, le vittime del clan presenti in aula a fronte di un numero di persone estorte e sotto usura di gran lunga superiore. Tra di loro la giornalista Sabrina Pignedoli, cronista del Resto del Carlino, minacciata dal poliziotto in combutta con la cosca emiliana.

Processo blindato
La prima udienza preliminare del processo Aemilia vede, 219 imputati, di cui 14 al carcere duro. Nove sono collegati in video conferenza. Gli accessi all’area Fiera sono completamente blindati, presidi fissi e controlli mobili di polizia e carabinieri, quasi 250 uomini delle forze dell’ordine impegnati nei sevizi di sicurezza. Duecento avvocati, tre sostituti procuratori della procura antimafia bolognese, una cinquantina di giornalisti accreditati ma sistemati in una saletta molto distante dal cuore del processo, decine di legali pronti a costituirsi parte civile per conto di comuni, province, e regione, associazioni di categoria e di promozione. Un processo di queste dimensioni a Bologna, e in Emilia, non lo ricorda nessuno. Pochi gli imputati a piede libero presenti. Tra questi Augusto Bianchini, l'imprenditore modenese accusato di concorso esterno. Attraverso la sua società i boss avrebbero messo le mani sulla ricostruzione post terremoto.
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Le accuse
I reati contestati dall'accusa: dall’associazione a delinquere di stampo mafioso (416 bis), alle estorsioni, dalle minacce all’usura, dall’intestazione fittizia dei beni al falso in bilancio, dalla turbativa d’asta alla corruzione elettorale, per andare poi a scandagliare tutta una serie di reati fine di diversa natura: incendi, pestaggi, tentati omicidi. Quello disegnato dai magistrati non è più la semplica infiltrazione di un clan di ‘ndrangheta al nord, ma il suo radicamento. “Aemilia” è per questo il processo al sistema della ‘ndrangheta Emiliana.

Omertà e convenienza
C'è tanta imprenditoria e livello finanziario. Ma il capitolo violenza, pizzo e usura, è molto ampio. Decine di casi: nell'avviso di conclusione indagine sono elencati uno per uno. In totale gli episodi tra incendi, prestiti usurai, estorsioni, sono più di 70. In aula però si sono presentati appena tre vittime su una sessantina che hanno subito minacce e pressioni. Un pessimo segnale. Ma non è escluso che si costituiscano successivamente, alla prima udienza del dibattimento vero e proprio. In ogni caso è significativo del timore che i Grande Aracri incutono tra gli imprenditori del territorio. Oltre alla paura di ritorsioni, però, il fatto di preferire il silenzio è in molti casi dovuto alla convenienza di mantenere certi rapporti: la 'ndrangheta, come hanno scritto gli investigatori nei loro rapporti, è per molte aziende locali un «valore aggiunto» per i propri business.

La svolta
Padrini, gregari, imprenditori affiliati e altri complici, politici di centrodestra, professionisti della mazzetta e consulenti finanziari spregiudicati. È il variegato mondo del sistema criminale sotto accusa. Da oggi al 22 dicembre le udienze si susseguiranno ogni due-tre giorni. La tensione è palpabile sia tra gli accusati che tra gli accusatori. In ballo c'è la dimostrazione o meno di una tesi investigativa che potrebbe cambiare l'approccio della lotta alla mafia in regione. Il risultato finale sarà decisivo per una terra che ancora tende a sottovalutare. Per questo Aemilia è il punto di svolta. Inquirenti e investigatori dopo questo processo non potranno più tornare indietro, a interpretazioni riduttive della presenza e della struttura della mafia calabrese.

«È una tortura»
Non sono mancate neppure le polemiche sugli imputati collegati in videoconferenza dal 41 bis. L'avvocato di Michele Bolognino, boss di primo piano del clan, ha definito «ai limiti della tortura» il carcere duro e quindi l'utilizzo del collegamento video che non permette a Bolognino di essere presente in aula. Come per mafia capitale, anche in Emilia i legali hanno una strategia ben precisa: dimostrare che la mafia fuori dalla Calabria o dalla Sicilia o dalla Campania non può esistere.

La struttura della 'ndrangheta emiliana
L'organizzazione sotto processo è un corpo unico. Con due teste: una a Cutro, provincia di Crotone, l'altra in Emilia, tra le province di Reggio (qui ha sede la cellula madre), Parma e Modena. Una decina di boss, cioè di capi clan, stanno al vertice. Poi ci sono gli organizzatori, quelli cioè che gestiscono nel quotidiano affari e traducono gli ordini dei superiori in fatti. A New York si chiamerebbero underboss. Questo è il primo cerchio della 'ndrangheta emiliana. E qui il padrone e sovrano è Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza” o “Mano di gomma”, per via di un brutto infortunio alla mano avuto quando da giovane usava il trattore. Al suo fianco, uno stuolo di collaboratori fissi, praticamente tutti familiari più stretti, figli, cugini, generi, cognati.

Il vero nucleo della famiglia Grande Aracri sta a Brescello. Possiedono ville nella via Pirandello, ormai è roba loro l'intera strada. A Brescello, quindi, il nucleo. Ma a Reggio, Modena, Bologna, Parma, Piacenza e fin su a Mantova e Verona, corrono rapidi i suv di questi affaristi in doppio petto che mischiano calabrese e padano come se fosse la cosa più naturale del mondo. Utilizzano linguaggi diversi a seconda del tavolo in cui siedono. C'è il grande capo Nicolino, sotto processo. Ma anche un giovanissimo, fratello di un luotenente del boss, nato nel '90. A 25 anni, si deve già difendere, dall'accusa di associazione mafiosa. E non in Calabria, che in fondo, non sa neppure come è fatta, ma in Emilia.

Concorrenti esterni
All'esterno del prestigioso cerhio dove le regole del sangue e dei codici di 'ndrangheta valgono ancora come un tempo, ci sono i concorrenti esterni e gli imprenditori complici, quelli che per qualche fattura e un po' di evasione fiscale si sono venduti l'anima al diavolo. È un lungo elenco. Ci sono, per esempio, i titolari dell'azienda modenese che ha permesso ai Grande Aracri di lavorare nella ricostruzione post terremoto. Ma c'è anche la consulente finanziaria di Bologna che riceveva il padrino Grande Aracri ben vestito nel suo studio in pieno centro città. La stessa professionista che tranquillizzava il papà spiegandogli che questi «calabresi sono potenti ma mica spacciano droga» e per questo poteva stare sereno.

Tra gli imputati per i quali la procura ha chiesto il rinvio a giudizio ci sono anche due politici regionali di peso. L'avvocato Giuseppe Pagliani e Giovanni Bernini, entrambi di Forza Italia. Entrambi, secondo gli inquirenti, si sarebbero prestati alle necessità della 'ndrangheta emiliana. I due esponenti politici, uno dei quali ancora in Consiglio comunale a Reggio Emilia, non si sono presentati in udienza.

Il mondo di mezzo
E sulla zona grigia che si giocherà la partita più difficile per i magistrati. Dimostrare l'esistenza di quel luogo di mezzo, una sorta di “mondo di mezzo” emiliano, dove sistemi criminali apparentemente lontanti si incrociano, sarà decisivo. Dimostrarlo permetterà di raccontare vent'anni di dominio mafioso in Emilia. Con tutte le complicità che hanno garantito boss e imprenditori l'impunità necessaria al mantenimento dei loro affari.