Padrini di mafia, camorra, ’ndrangheta. Trasferiti senza clamore ?in una struttura speciale sarda. Dove vivranno in pochi metri, collegandosi solo in videoconferenza. E' il nuovo 41 bis

carcere
È il primo carcere pensato e realizzato per applicare la legge sui boss detenuti sottoposti al 41 bis, il duro regime riservato ai più pericolosi criminali mafiosi. È una struttura in cemento armato inaugurata due anni fa che si spalma su decine di ettari di terreno nelle campagne della frazione di Bancali a otto chilometri da Sassari, intitolata a un agente della polizia penitenziaria, Giovanni Bacchiddu, ucciso nel 1945 mentre tentava di fermare un’evasione.

È destinata a diventare l’incubo di padrini e gregari, perché di carceri così non se ne erano mai viste in Italia. Non sono certo i tempi di Asinara e Pianosa, ormai solo un triste ricordo, ma il “Bacchiddu” ne ha perfezionato la struttura. Tutto è moderno: spazi e celle sono stati riprogettati rispetto ai locali angusti dove all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio vennero rinchiusi i “dannati”, i primi boss a cui fu applicato il 41 bis. Un provvedimento che per i mafiosi diventò la “condanna delle condanne”, spingendo numerose figure di primo piano verso la collaborazione con la giustizia. Ci sono voluti 23 anni per ottenere una struttura come questa creata attorno al 41 bis.

L’operazione avviata a giugno dalla direzione generale del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria), guidata da Roberto Piscitello, si è conclusa in gran segreto solo poche settimane fa con il trasferimento di 90 detenuti provenienti dalle carceri di massima sicurezza della penisola. Sono i mafiosi più pericolosi d’Italia, selezionati tra i 750 reclusi in regime di carcere duro dai magistrati di tutte le direzioni distrettuali antimafia coordinati dal procuratore nazionale Franco Roberti.

I boss sono stati condotti in Sardegna uno alla volta, a distanza di settimane l’uno dall’altro. Spostamenti segreti, usando velivoli messi a disposizione dalla Guardia di Finanza e dalla polizia di Stato per arrivare all’aeroporto di Alghero. Lì cortei di furgoni blindati hanno scortato i reclusi fino ai cancelli della sezione “incubo” del Bacchiddu.
Il primo è stato Leoluca Bagarella, il padrino corleonese, cognato di Totò Riina, un sanguinario che portò con il suo atteggiamento violento e crudele al suicidio della moglie che lo accompagnava durante la latitanza a Palermo. È stato sistemato in una cella che, come le altre, è di dodici metri quadrati. Negli spostamenti interni però non attraverserà lunghi corridoi su cui si trovano altre celle e altri detenuti. Qui tutto è stato progettato per ridurre al minimo i contatti tra i reclusi e la possibilità di comunicare con l’esterno. È una sorta di alveare. Le celle sono divise in blocchi, in cui si possono affacciare solo quattro detenuti: quelli che trascorrono insieme l’ora d’aria in un piccolo cortile attiguo. Non solo. Accanto a ogni cella c’è una stanzetta per i video collegamenti con le aule giudiziarie: da lì assisteranno ai processi in cui sono imputati o parleranno con i loro avvocati. Il loro mondo finisce lì: tutta la vita avverrà in poche decine di metri.

È un cambiamento radicale rispetto alle prigioni utilizzate oggi. Bagarella se ne è reso conto subito e ha cominciato a protestare, nel solito modo violento che conosce. La stessa sorpresa che ha accolto gli altri 89 detenuti, convinti di venire sottoposti a un trasferimento di routine e invece finiti dietro i cancelli del Bacchiddu. Non sapevano, e forse non sanno ancora oggi, di far parte della più grande comunità mafiosa italiana che concentra in una sola struttura capi e sicari di Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta. Una super cupola. Il Dap ha disposto la loro divisione in venti “gruppi di socialità”, composti da quattro detenuti, accuratamente scelti per evitare commistioni o legami criminali.

È una svolta. Nel corso degli anni le maglie del 41bis si erano lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire figli. Poi nel 2009 c’è stata la svolta, almeno per quanto riguarda l’aspetto penitenziario. Un articolo del testo di legge ha riportato rigore nella reclusione: «I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari». È da questa legge che si è arrivati alla costruzione del padiglione speciale di Bancali. Escludendo la Sicilia per ragioni di sicurezza e incompatibilità ambientale, sarà ancora la Sardegna ad ospitare un alto numero di boss. Si comincia da Sassari. Poi nei prossimi anni altri padrini potrebbero arrivare in un nuovo reparto del carcere di Cagliari. Il trasloco dei criminali più pericolosi negli scorsi mesi ha provocato proteste da parte dei politici sardi: temono che questi boss possano portare la mafia sull’isola. Ma la Sardegna è l’unico posto in cui si può attuare sul serio questo regime carcerario, ostacolando anche con la geografia i rapporti tra reclusi e cosche.

«La Direzione nazionale antimafia ha sempre attribuito massima importanza al 41 bis, perché strategico nell’attività di disarticolazione delle organizzazioni mafiose, poiché consente di privarle dell’apporto che i loro capi, finalmente assicurati alla giustizia e raggiunti da condanne per reati gravissimi, potrebbero continuare ad assicurare anche in regime di detenzione ordinaria», spiega il procuratore nazionale Franco Roberti, che aggiunge: «D’altra parte non sono soltanto le strutture di contrasto a mafia e terrorismo ad attribuire valenza strategica al 41 bis, ma anche le stesse organizzazioni mafiose e terroristiche, se è vero, come è vero che da sempre queste organizzazioni hanno posto il problema dell’abolizione del regime speciale al vertice della loro “agenda politica”».

Dopo Bagarella a Bancali sono arrivati boss e padrini siciliani, campani e calabresi a fargli compagnia. Anche se di fatto il boss corleonese non ne ha saputo nulla. Nessuno ha notizie di quello che avviene negli altri blocchi, isolati l’uno dall’altro. Scavando tra i familiari che vanno a far visita ai detenuti e attraverso le udienze a cui partecipano gli imputati, si scopre che ci sono il trapanese Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante Matteo, il palermitano Filippo Guttadauro, che fra pochi mesi tornerà libero per aver scontato la pena, lo stragista siciliano Giorgio Pizzo. Il calabrese Domenico Gallico, che riveste un ruolo importante nella ’ndrangheta e che due anni fa aggredì con un pugno in faccia un pm di Reggio Calabria durante un interrogatorio in carcere. E fra i calabresi sono presenti anche Francesco “Ciccio” Pesce e Giuseppe Pelle. Fra i camorristi figurano Pasquale Zagaria, Francesco Schiavone, cugino omonimo del boss chiamato Sandokan, Francesco Bidognetti e Ciro Minichini. L’incubo lo sta conoscendo anche il vecchio padrino nisseno Giuseppe “Piddu” Madonia, membro della storica cupola, che in passato in altre prigioni veniva fatto girare comodamente fra i corridoi e omaggiato.

Adesso vivono in un mondo ovattato, silenzioso e con poche finestre sulla campagna circostante. Una misura senza precedenti. Contro la quale i 90 boss hanno reagito con irritazione, trattando male gli agenti e il direttore del carcere, che è una donna, Patrizia Incollu. E poi spedendo esposti ai giudici, alle associazioni e alle redazioni dei giornali: sostengono di essere vittime di un’ingiustizia. Ma “l’operazione Bancali” è stata realizzata secondo le regole della legge del 2009. Perché nessuno di loro può tagliare il vincolo che li lega all’associazione mafiosa. Lo spiega Maurizio De Lucia, sostituto procuratore nazionale antimafia: «Il giuramento prestato all’atto dell’affiliazione non prevede recesso unilaterale, né cessazione dell’incarico per limiti di età, e dunque, di regola, il vincolo cessa con la morte, ovvero con la decisione traumatica del “tradimento”, di rinnegare l’appartenenza per una scelta di vita, di valori, antitetica a quella mafiosa, in una parola la collaborazione con la giustizia». E poi precisa: «Questo non esclude che motivi di salute, di età, di condizione, possano condurre all’affievolimento del ruolo, all’indebolimento della posizione all’interno del gruppo, con conseguente perdita di “peso” nelle decisioni e nel comando, ma si tratta di eventualità rare, che comunque lasciano traccia e dunque sono in qualche modo verificabili». È per questo motivo che padrini come Bernardo Provenzano sono ancora sottoposti al 41 bis, nonostante le condizioni di salute lo costringano al ricovero nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano.

Ad oltre vent’anni dalle stragi siciliane questi provvedimenti sono ancora necessari? Secondo Maurizio De Lucia è una questione di prevenzione: «Se un detenuto per reati di mafia, può, anche durante la detenzione, collegarsi, comunicare o comunque tenere contatti, con l’organizzazione di provenienza (e ciò sia attraverso un collegamento diretto con l’esterno, sia attraverso altri detenuti), questo potenziale collegamento genera pericolo, perché la cosca continua a ricevere il contributo organizzativo, decisionale, di uno dei suoi esponenti principali, in tal modo rafforzando la propria operatività (anche per effetto del prestigio derivato dal personaggio detenuto di riferimento), mentre il detenuto continua ad usufruire del potere di leadership a lui derivato dalla operatività attuale della cosca di appartenenza, con conseguente rafforzamento del suo potere personale dentro e fuori del carcere».

Lo scorso mese il capo dei Casalesi, Michele Zagaria, detenuto nel penitenziario di Opera, ha dovuto ammettere davanti ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere che di stare al 41 bis non ne può più. Attraverso il video collegamento ha raccontato che vive «una situazione disumana» e che nessun detenuto vuole trascorrere con lui l’ora d’aria per paura di microspie: lo lasciano da solo. Zagaria è detenuto da dicembre 2011, quando si è conclusa la sua latitanza. E da allora è sottoposto al regime duro. Altri capimafia, invece, che sono ancora sparsi per le carceri di massima sicurezza non vogliono ammettere la loro condizione di disagio. E così, se fra i 90 posti di Sassari se ne dovesse liberare qualcuno questo potrebbe essere pronto per altri boss come Riina che adesso è a Parma, oppure Giuseppe Graviano che è ad Ascoli, o Salvatore Madonia che è a Viterbo per finire con Massimo Carminati che il suo 41 bis lo sta trascorrendo a Parma. Ad ogni modo l’incubo per i mafiosi detenuti è tornato e sta a Bancali.

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