È l'incredibile sentenza di un giudice del tribunale di Milano che ha condannato una delle parti a pagare una multa per non aver presentato copia cartacea oltre a quella informatica. Con un paradosso: un accordo di cortesia con gli avvocati prevale su una legge dello Stato

La legge impone il processo telematico? Per contro, il giudice sanziona l'assenza della documentazione cartacea. Una contraddizione tutta italiana, che sfiora evidentemente i limiti del paradosso. Ma scavando oltre la superficie, quella che emerge è l'immagine del Paese reale: perennemente fedele a se stesso, e renitente a ogni spinta verso l'innovazione e la sburocratizzazione.

Riannodiamo i fili, partendo dal principio. Dopo anni di sperimentazione e un lungo rodaggio, il 30 dicembre 2014 è entrata definitivamente in vigore la norma che ha esteso a gran parte dell'attività processuale l'obbligo di deposito telematico, già parzialmente efficace dal 30 giugno.

Sedici giorni dopo, un collegio di giudici della sezione fallimentare del Tribunale di Milano – che per inciso, su autorizzazione del ministero, aveva attivato il processo telematico sin dal primo luglio 2011 – ha ritenuto di condannare a 5mila euro di danni, per “responsabilità aggravata”, una delle parti processuali che aveva correttamente depositato la memoria attraverso il sistema informatico, omettendo di consegnare anche una copia cartacea “di cortesia”, richiesta ai sensi da un protocollo di intesa interno e quindi non obbligatorio.

"Va osservato – si legge nella sentenza emessa dal collegio presieduto da Francesca Bruno, e composto dai giudici Francesca Mammone e Filippo D'Aquino - come la parte opponente abbia depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie di 'cortesia' di cui al Protocollo d’intesa tra il Tribunale di Milano e l’Ordine degli avvocati di Milano del 26/6/2014, rendendo più gravoso per il Collegio esaminare le difese. Tale circostanza comporta l’applicazione dell’art. 96, comma 3, del Codice di procedura civile, come da dispositivo”.

La circostanza ha scatenato aspre reazioni nel mondo forense, non solo in quello ambrosiano. E in queste ore impazza il dibattito sui blog e sui siti web dedicati.

«E' una decisione che lascia sinceramente interdetti», osserva l'avvocato Guido Scorza, fondatore di E-Lex, presidente dell’Istituto per le politiche dell’innovazione e docente di Diritto delle nuove tecnologie in diverse università italiane. «Anzitutto – spiega - perché la normativa vigente sancisce l’obbligo di deposito degli atti processuali e dei documenti esclusivamente con modalità telematiche. Ed è del tutto evidente che un protocollo d'intesa stipulato con l'Ordine degli avvocati non possa prevalere sul dettato della legge. In secondo luogo, ancor più incomprensibile risulta l'applicazione dell'articolo 96, che in realtà serve a sanzionare comportamenti scorretti di una delle parti: ovviamente, non può essere certo considerato tale il mancato deposito della copia di cortesia, che a dire dei giudici avrebbe reso 'più gravoso' il loro compito. In punta di diritto, inoltre, appare assurda una sanzione di 5 mila euro riconosciuta alla controparte per qualcosa che avrebbe nuociuto ai giudici».

Nel suo blog Daniele Minotti è molto duro: «Alcuni magistrati non amano il processo telematico, perché stamparsi un allegato pdf è roba da cancelliere e non per persone di quel rango. Idem per molti avvocati. Non c’è differenza, per me quella gente è nemica della Giustizia, indistintamente».

Considerazioni più o meno analoghe esprime in un articolo pubblicato sulla rivista giuridica dell'Ipsoa anche Fabrizio Sigillò, docente di Informatica giuridica presso la Scuola superiore per le professioni forensi dell'Università Magna Graecia di Catanzaro: «La sentenza dei giudici di Milano apre un pericolosissimo varco nel panorama della giurisprudenza di merito sul processo civile telematico, suscettibile di essere condiviso in quel contesto che non ha mai nascosto la palese avversione allo sviluppo del sistema».

«Non è un mistero – chiarisce Sigillò – che in passato ampi settori della magistratura abbiano duramente contrastato l'introduzione del processo telematico. Basti ricordare il documento ufficiale dell'Anm del 28 febbraio 2014, in cui si paventava addirittura che l’esigenza di consultare tutti i documenti sul terminale avrebbe comportato seri rischi per la salute dei magistrati. E successivamente, la presa di posizione del Csm del 12 giugno dello stesso anno, che invocava il mantenimento anche su supporto cartaceo dei fascicoli per un adeguato lasso temporale, il cosiddetto 'doppio binario', motivandolo con l'insufficienza di risorse umane e materiali».

Sigillò poi aggiunge: «Per fortuna non tutti i magistrati la pensano così, anche all'interno dello stesso Tribunale di Milano. E la riprova arriva da un provvedimento del 7 febbraio del giudice delegato alla procedura fallimentare oggetto della controversia, Irene Lupo, che ha accolto la proposta del curatore di rinunciare al credito derivante dalla condanna ex articolo 96 (vale a dire i famosi 5 mila euro, ndr), in cambio di una sollecita corresponsione dell'importo liquidato per le spese di giudizio. La motivazione addotta risulta assai eloquente e per questo la cito testualmente: "Detta pronuncia appare fondata su un principio opinabile, ritenendo obbligo dell'avvocato quello che potrebbe configurarsi come atto di cortesia". Credo sia sufficiente questo, al di là di ogni altra obiezione, a chiudere il cerchio di un'infelice pronuncia giudiziale». Insomma, il diritto dovrebbe prevalere sulla cortesia.