Legno, vetro, acciaio. Per creare decine di meraviglie dell’architettura. A meno di tre mesi dall’inaugurazione, ecco gli attesissimi padiglioni di Milano 2015

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«Yes Yes Yes!». Strizza gli occhi, l’operaio Phung. Fa sì col capo, più volte, alla domanda se anche loro, i vietnamiti, ce la faranno in tempo a finire il padiglione. Il carpentiere Phung, piombato a Milano da Hanoi, ignora l’italiano, di inglese sa due parole, «yes» e «no», ma con disciplina militare ci trasmette che sì, certo, presto saranno pronte le strutture arborescenti in bambù che formeranno una casa-foresta asiatica accanto al cosiddetto Cluster del Riso. Il piccolo edificio del Vietnam, disegnato dall’architetto Vo Trong Nghia, virtuoso di questa tecnica, sarà una delle attrazioni di Expo 2015.

[[ge:rep-locali:espresso:285148157]]Siamo nella prima parte del Decumano, spina dorsale di tutto. Quattromila persone sono al lavoro, a poco più di due mesi dal Big Bang. È un fitto incrociare di gru, muletti, caterpillar, scale telescopiche, carpentieri appollaiati in quota come picchi. Centinaia di veicoli manovrano come in un puzzle enorme leggibile solo dal cielo. È già finita la tensostruttura, 1,6 chilometri da est a ovest. Vista da sotto: una meraviglia dell’ingegneria. Il corridoio di tende chiare in membrana sorrette da tiranti d’acciaio, studiato dal Politecnico di Milano, crea una lieve corrente d’aria permanente che abbatterà la temperatura dell’aria fino a 4-5 gradi rispetto all’area scoperta. Lungo questa spina, e la sua croce corta, il Cardo del Padiglione Italia, si gioca la sfida. La vetrina mondiale sulla cultura del food per cui il “New York Times” ha definito Milano «the place to be» nel 2015. Il clima è febbrile, ma stranamente ordinato. In più punti i turni sono ancora di 20 ore su 24, ma buona parte dei ritardi è stata annullata. I ritardi, ricordiamo, creati prima dagli scontri politici sulla governance, poi dal dramma appalti-tangenti-arresti dell’anno scorso. Costretti all’affanno, gli operai e i tecnici, gli ultimi a iniziare, saranno i veri eroi dell’evento. Quelli a cui sarà giusto dire grazie.

[[ge:rep-locali:espresso:285516289]]Il tema, si sa, è l’alimentazione a livello globale. Ma Milano 2015, lo si capisce solo ora, è anche una mostra en plein air di architetture. Percorrendo il Decumano scortati dal chief architect di Expo Spa, Ciro Mariani, docente del Politecnico, emerge anche l’effetto-competizione. Il visitatore, dal 1° maggio, non solo camminerà tra aiuole e campi coltivati, betulle e palmizi, tra i Cluster del Caffè e dei Cereali; non solo spazierà tra 130 ristoranti dall’hamburger Usa ai formaggi di Eataly ai falafel arabi; ma visiterà un festival di architettura sostenibile. «E questo è l’effetto Milano, design, moda, gusto», riprende Mariani: «Nell’ultimo anno si è creato un clima da gara, in cui nessuno vuol sfigurare. E si è evitato l’effetto luna park delle Expo precedenti». Perché il livello - a parte le eccezioni che diremo - è piuttosto alto, se pensiamo a edifici che dopo sei mesi verranno smontati, traslocati e ricostruiti altrove.

Expo del cibo, quindi; ma anche del legno. All’ingresso già svetta il Padiglione Zero col suo effetto montuoso. È il primo che s’incontra arrivando dalla passerella pedonale che trasporterà fino a 8 mila persone l’ora dalla stazione del metrò. Disegnato da Michele De Lucchi, tutto in abete nazionale, il Pad Zero è in linea visiva con le Alpi, e introdurrà, simbolicamente, il concetto “Nutrire il pianeta”. Come spiega De Lucchi: «È concepito come una fetta di crosta terrestre ordinatamente tagliata e sollevata. Un invito a entrare nei segreti del pianeta, che è sezionato come un’area montuosa, con valli e declivi». La struttura è nata per strati, secondo le curve di livello. Vista da sotto fa una fortissima impressione.

Gli eroi di Expo 2015 saranno loro, sì, i carpentieri. Non che manchi l’acciaio; ma spesso è nascosto. È il legno (fornito in gran parte da Trentino, Austria e Slovenia) il materiale più rappresentativo. Ecco lì, ad esempio, i giapponesi. Stanno finendo la sofisticata gabbia in cedro, quasi una maglia intrecciata, segno di «diversità armoniosa» secondo lo studio Ishimoto. Più in là, il Padiglione Spagna: Fermín Vázquez Arquitectos hanno creato due navate parallele, di tipo gotico. Una rimarrà a vista (la memoria della tradizione), l’altra la stanno rivestendo in acciaio riflettente (la Spagna moderna). Legno biondo anche per l’elegante parallelepipedo del Cile a travi incrociate, progetto di Cristián Undurraga.

Non solo i riti del cibo, a Milano 2015, affratellano il mondo. Un’altra novità, rispetto alle Expo precedenti, è una percepibile distensione geopolitica. «A Shanghai 2010», nota il chief architect Mariani, «la Cina era attorniata da padiglioni di Paesi amici, asiatici e comunisti. A Milano i lotti sono stati assegnati secondo lo schema “chi prima arriva prima sceglie”». Così la Germania ha voluto stare vicina a Palazzo Italia. La Cina è finita tra Colombia e Uruguay. Israele è con Francia e Santa Sede. Gli Usa, incredibile, si sono ritrovati di fianco al Kuwait (passi) ma di fronte all’Iran; Iran che ha un architetto (Kamran Safamanesh) interessante, certo più dell’autore dell’edificio Coca-Cola.

I padiglioni dei Paesi arabi vogliono farsi notare. Uno dei più costosi è quello degli Emirati, ideato dall’inglese Norman Foster, che racconta la storia del Paese e verrà poi rimontato ad Abu Dhabi. Ma il livello è diseguale. Audace il Kuwait, sui temi della risorsa acqua e dell’ambiente deserto, disegnato dal milanese Italo Rota con un gioco di vele esterne che ricorda le imbarcazioni dhow. Vernacolari, invece, per non dire kitsch, i padiglioni Qatar e Oman. Gli intenditori già segnalano il gioiellino del Bahrain. Lo costruisce l’impresa lombarda Restaura, su progetto di Holtrop & Vogel di Amsterdam: una medina rettangolare in cemento bianco che racchiude un giardino di tesori botanici, datteri palmizi melograni albicocchi.

Delude, dopo Shanghai, il Regno Unito, anche per via del budget tagliato dal governo Cameron. Non brilla la quadrupla torre della Svizzera, basata sull’idea della distribuzione gratuita di acqua, sale, caffè e mele, ma meno incisiva rispetto ai rendering iniziali. Brava la piccola Slovenia, uno sforzo notevole. Bravo l’Uruguay (architetti Diaz e Gimenez) con un progetto quasi radical. E l’Austria? Taciturni giardinieri piantumano una miniatura di bosco alpino, che sarà rinfrescato da un nebulizzatore. Ci credete? C’è tanta qualità all’Expo. Lo stupore rimangerà molte critiche.

Tasto dolente, l’Italia. Non per la capacità tecnica, che è ammirevole. Non per la logistica (si va risolvendo) e la sicurezza (finora zero incidenti seri, un’eccezione). Ma per il Cardo, che è l’area italiana, ed è in visibile ritardo. Per l’Albero della Vita, una sculturona enfatica. Per le traversie di Palazzo Italia. Ed ecco appunto l’architetto Michele Molè dello studio Nemesi, che incontriamo sul cantiere. Ha l’occhio febbrile di chi dorme poco. Oltre 150 persone al lavoro come pazzi. Stanno ricoprendo l’enorme Palazzo Italia con 920 pannelli, tutti diversi, in cemento biodinamico della Italcementi. Ora per ora cresce la sofisticata trama vegetale. «Foresta urbana», dice Molè: «È un edificio osmotico, di classe energetica A+, con almeno il 50 per cento del fabbisogno energetico prodotto dall’edificio stesso. Copertura fotovoltaica, ricircolo attraverso serpentine dell’acqua di falda a 18 gradi, effetto camino dell’aria fresca». Tutto vero. Ma è un’opera ambiziosa, troppo per una Expo, effimera per natura e incerta del domani. È l’unico padiglione costruito per restare, e paga una storia assurda: concorso assegnato tardi, ad aprile 2013; da dicembre contractor è Italiana Costruzioni, marzo 2014 inizio cantiere, poi clamoroso arresto del responsabile, ingegner Acerbo, stop ai lavori, ripresa in affanno. Da cui la corsa folle di oggi, e l’alto rischio (che “l’Espresso” non tace) che l’opera che rappresenta l’Italia, la più audace di tutte, arrivi al 1° maggio non finita. Una gaffe tutta politica. Tutta sistemica, del sistema Italia.

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