Eni, il raddoppio dei ricavi in 10 anni non basta Così gli utili della compagnia si sono dimezzati

eni
eni

Le aziende petrolifere mondiali, tra cui quella italiana, guadagnano sempre meno. “Colpa del recente crollo ?dei prezzi del greggio”, dicono. Ma molte di loro hanno sbagliato sia le previsioni sia gli investimenti. E adesso per rimediare servono misure drastiche, come la vendita di Saipem

eni
Tutta colpa del crollo del petrolio. Nei giorni scorsi le più grandi compagnie energetiche mondiali hanno pubblicato i bilanci del primo trimestre dell’anno. Numeri negativi, in netto ribasso rispetto al 2014. Il discorso vale per tutte quelle che un tempo venivano definite le sette sorelle, e che ora sono rimaste in cinque: British Petroleum, Total, Royal Dutch-Shell, Chevron, Exxon Mobil. Non fa eccezione l’Eni, il cui utile netto è diminuito del 46 per cento nel giro di un anno. Motivo? «Il crollo del prezzo del Brent», ha dichiarato Claudio Descalzi, l’amministratore delegato della più grande società italiana per capitalizzazione di Borsa.

L’argomento è lo stesso usato dai manager delle compagnie concorrenti. Ed è tutto vero: il tonfo del greggio (il Brent è la qualità più scambiata sui mercati) non poteva che impiombare i bilanci delle majors. C’è però un’altra verità che non viene ripetuta con la stessa chiarezza dai petrolieri, ma emerge considerando uno spazio temporale più ampio. Negli ultimi dieci anni il valore dell’oro nero è stato mediamente altissimo. Eppure, quasi tutte le società del settore hanno ridotto i margini di guadagno.

Una dinamica paradossale. Più cresce il prezzo della materia prima sui mercati, infatti, e più dovrebbe guadagnare chi quella materia la estrae. Invece no. Le cose sono andate esattamente al contrario. E così l’Eni, che ha dimensioni più contenute rispetto ai rivali, ora rischia grosso. Con il petrolio basso, le opzioni per il Cane a sei zampe non sono infatti molte: se vuole continuare a pagare dividendi ai suoi azionisti, primo fra tutti lo Stato, l’unica strada è quella di vendere qualche pezzo pregiato della cristalleria.

GLI SBAGLI DI SCARONI
Per spiegare l’impoverimento del colosso energetico italiano bisogna tornare indietro di dieci anni. Marzo 2006. «Prevediamo che il prezzo del greggio Brent rimanga nell’intorno dei 50 dollari al barile per i prossimi due anni, dopo i quali assumiamo che i prezzi scendano gradualmente verso un livello di circa 30 dollari al barile al 2010»: Paolo Scaroni, all’epoca nominato da poco amministratore delegato dell’Eni, immaginava così l’andamento sui mercati della più ambita sostanza naturale.
[[ge:espressosite:espresso:1.179882:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.179882.1410507217!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]
Una stima rivelatasi completamente sballata. Fatta eccezione per il 2009, quando il greggio è sceso sotto i 50 dollari seguendo il crollo delle Borse, negli ultimi dieci anni le quotazioni sono state sempre altissime. Basti dire che dal 2011 al 2014 non sono quasi mai finite sotto quota 100. Doveva essere una bella notizia per gli azionisti del Cane a sei zampe. Invece, dal 2005 al 2014, la compagnia energetica ha dimezzato i profitti. E adesso che il barile è crollato, le perdite si stanno allargando.  

LA MOSSA DEI SAUDITI
La caduta improvvisa dell’oro nero, vista sul mappamondo, ha avuto gli effetti più visibili negli Stati Uniti. L’Arabia Saudita, il gigante assoluto del comparto, a novembre ha annunciato a sorpresa di non voler tagliare la produzione. Il risultato è che nel giro di due mesi i prezzi sono passati da 90 a 45 dollari al barile, con conseguenti crisi economiche nei Paesi ultra-dipendenti dal petrolio come Russia e Nigeria. Secondo diversi osservatori, però, quella decisione aveva un obiettivo specifico: indebolire gli Usa che, grazie allo sfruttamento dello “shale oil”, il greggio estratto con nuove tecnologie dalle rocce di scisto, sono entrati a far parte del club mondiale dei grandi produttori.

I sauditi hanno centrato l’obiettivo. Secondo i calcoli dell’ufficio statistico americano (Bls), a ottobre del 2014 l’industria petrolifera Usa dava lavoro a 201.500 persone: oggi sono la metà. Ci sono decine di cittadine fantasma in Texas e in North Dakota, dove fino a ottobre era tutto un brulicare di trivelle. Una fuga che si spiega così: ai prezzi attuali, in certe zone, non conviene più estrarre greggio. Matematico. Il petrolio basso, dopo anni di quotazioni record, sta dunque creando una selezione naturale. Dove i produttori più piccoli sono già falliti, e dove i big mostrano segni di indebolimento, soprattutto quelli che erano già in difficoltà.

10 ANNI DI ENI
Occhio ai numeri. Confronto tra i fatturati dell’Eni nell’ultimo decennio. Nel 2005 i ricavi ammontavano a 59 miliardi di euro; l’anno scorso il pallottoliere è arrivato a 109 miliardi, quasi il doppio. Lo stesso non è avvenuto per i guadagni. L’utile operativo - la differenza fra ricavi e costi al netto delle operazioni straordinarie - in dieci anni è dimezzato: da 16,8 a 7,9 miliardi. Come è potuto succedere tutto questo visti gli alti prezzi del petrolio? Dai bilanci emerge che nel 2005 la società guadagnava in ogni settore d’attività, adesso invece a fare soldi è solo il business dell’estrazione di gas e petrolio. La raffinazione e la chimica, che dieci anni fa producevano 1,8 miliardi di profitti, nel 2014 ne hanno persi quasi 3. Saipem, la società d’ingegneria che costruisce piattaforme e gasdotti, guadagnava 300 milioni, mentre l’anno scorso ha chiuso i conti in pareggio. Segna zero pure il bilancio del gas, che invece valeva la bellezza di 3,3 miliardi di utile operativo. Va detto che all’epoca il gruppo Eni inglobava alcune partecipazioni poi alleggerite, come quella di Snam. E va aggiunto che il fenomeno di aumentare il fatturato e diminuire i profitti ha colpito anche rivali europei come la francese Total e la anglo-olandese Shell. La differenza è che, rispetto a loro, Eni è l’unica a registrare perdite nella chimica e nella raffinazione. Ed è anche la più piccola delle tre, fattore che la rende particolarmente vulnerabile ora che il settore è in panne.

CARO INVESTIMENTO
Per comprendere la discrasia fra ricavi e utili bisogna guardare gli investimenti. Negli ultimi dieci anni, spinte da quotazioni del greggio alte, molte compagnie si sono lanciate in progetti costosi, e adesso che i prezzi sono scesi quei pozzi non sono più sostenibili. Total e Shell hanno puntato miliardi sui ghiacci dell’Artico. Chevron e Britsh Gas hanno trivellato a grandissime profondità marine. Molti altri si sono avventurati nello shale oil americano. L’Eni è tra le poche società a non aver azzardato scommesse così rischiose ma, comunque, ha investito parecchio in nuovi giacimenti, e in qualche caso ci ha perso.

La zavorra si chiama Kashagan, il giacimento kazako descritto da Scaroni come «una delle più grandi scoperte degli ultimi 30 anni». Doveva iniziare a produrre sette anni fa, ma è ancora una promessa. Pagata peraltro carissima: più di 9 miliardi di dollari investiti, compresi gli ultimi lavori per il rifacimento delle condutture. L’altra grande scommessa è Mamba, un immenso bacino di gas nascosto nelle acque del Mozambico, ancora tutto da sfruttare. Tesori come quello africano sono redditizi con i prezzi attuali? Claudio Descalzi, il manager succeduto un anno fa a Scaroni, si è limitato a dire che le nuove scoperte mediamente producono utili finché le quotazioni non scendono sotto i 45 dollari al barile. Impossibile sapere il punto di pareggio dei singoli giacimenti. Di certo, ammesso che non perdano, con i prezzi odierni i pozzi non daranno a Eni le soddisfazioni previste tempo fa.

NEL MIRINO DI PUTIN
A ciò si aggiungono altre due incognite. Una è l’inchiesta condotta dalla procura di Milano sulla presunta tangente pagata per accaparrarsi una concessione petrolifera in Nigeria; vicenda che coinvolge Descalzi, e che in caso di condanna potrebbe incidere sull’immagine del capo-azienda scelto dal premier Matteo Renzi per guidare la più ricca delle partecipate pubbliche. L’altra storia riguarda la Libia ed è più rischiosa. Come ha detto Descalzi al “Financial Times” lo scorso 20 aprile, «siamo preoccupati ogni giorno, ogni secondo per quanto succede in Libia». Già, perché dall’ex colonia del Regno d’Italia arriva un terzo della produzione di idrocarburi dell’Eni, e anche se finora la società - unica al mondo - è riuscita a mantenere attivi tutti i suoi pozzi, suscitando dubbi tra gli osservatori circa i metodi utilizzati per tenere a bada la guerra civile, il pericolo che la situazione precipiti e i giacimenti debbano essere chiusi non è escluso.

Le difficoltà si sono già tradotte in atti concreti. La compagnia italiana è stata l’unica finora a tagliare di quasi il 30 per cento il dividendo per i suoi soci, abbassando la cedola da 1,10 agli 0,8 euro per azione che verranno pagati quest’anno. Ma non basta, hanno scritto gli economisti di Standard & Poor’s, spiegando il recente abbassamento del rating di Eni (da A ad A-): «Crediamo che i prezzi del gas e petrolio resteranno bassi per i prossimi due anni, e che questo causerà un calo dei profitti e del flusso di cassa nonostante il taglio del dividendo, la riduzione dei costi e degli investimenti decisi dal management».

LA STRATEGIA DI DESCALZI
Descalzi ha già annunciato la contromossa: vendere attività per 8 miliardi di euro. Dentro quella cifra, secondo gli esperti, ci sono anche le cessioni di quote in giacimenti come quelli in Congo, Venezuela e Mozambico. Insomma, vendere pezzi di scoperte fatte negli ultimi anni, talvolta a caro prezzo. Ma non solo. A finire sul mercato potrebbe essere anche Saipem, la società ingegneristica che ha più dipendenti della stessi Eni, e che Descalzi ha definito non più centrale nelle sue strategie.
[[ge:espresso:opinioni:carta-canta:1.180361:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.180361.1410874813!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]
Considerata tra le migliori al mondo nel suo settore e per questo ambita soprattutto dalla Russia di Vladimir Putin (che, dicono alcuni osservatori, conquistandola potrebbe finalmente sfruttare i suoi giacimenti di idrocarburi senza aiuti occidentali), Saipem non perde soldi. Il problema sono i debiti: 4,4 miliardi, che pesano per oltre un terzo sul totale di quelli dell’Eni. Il piano del capo-azienda è quello di «deconsolidarla», cioè vendere una fetta rilevante della partecipazione. Strategia che permetterebbe di incassare cash (l’intera quota Eni vale oggi circa 2 miliardi di euro), ma soprattutto di sbarazzarsi di quei debiti tanto odiati dagli analisti delle banche d’affari.

È questa la partita industriale più importante per Descalzi, che ha scelto di affidare la guida di Saipem a Stefano Cao, uno degli uomini di punta del gruppo prima dell’arrivo di Scaroni. A lui spetta il compito di rendere appetibile la società in vista della cessione, aspettando magari che le quotazioni borsistiche salgano ancora un po’, così che Eni possa ottimizzare l’incasso. I soldi saranno certamente utili per continuare a pagare dividendi agli azionisti privati e allo Stato italiano. Il quale, però, dovrà mettere in conto il rischio di perdere il controllo di un’altra grande azienda, per di più in un business strategico come quello energetico. Di fronte agli annunci di Descalzi di non voler più considerare fondamentale Saipem, il governo finora non ha espresso critiche. Segno che la ritirata dell’Eni è condivisa anche da Renzi?


Aggiornamento del 14 maggio 2015 ore 18: La precisazione di Eni

LEGGI ANCHE

L'edicola

Ustica: la verità sulla strage - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 11 aprile, è disponibile in edicola e in app