«Il mio viaggio finisce qui, basta scappare» Stazione di Milano, un giorno coi profughi

In quattrocento ogni giorno affollano gli spazi dello scalo lombardo. Sono eritrei, siriani, somali e nigeriani in fuga. Bloccati per la chiusura delle frontiere hanno dormito all’aperto o nei centri del Comune. E nonostante le  speculazioni politiche e la paura di malattie infettive in tanti hanno regalato cibo e vestiti

Okubai ha vent’anni ed è partito dall’Eritrea cinque mesi fa.

Sabato è arrivato a Milano, stazione centrale, il tappo del Paese. A piedi attraverso il Sudan e la Libia, tremila chilometri di marcia disperata per fuggire al regime sanguinario di Isaias Afewerki, il dittatore di Asmara, subendo ogni genere di angheria, pagando i vari trafficanti che si scambiano uomini come merce.

E poi l’attesa a Tajoura, a Est di Tripoli, per imbarcarsi su una carretta che lo separa dalla fortezza Europa. Lampedusa, Roma e poi Genova. Vagando da una stazione ad un’altra, da un giaciglio di fortuna ad un altro. L’incontro con altri eritrei e si riparte. In treno e pullman per arrivare fino alla metropoli lombarda.
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15/6/2015

«Il mio viaggio finisce qui, non voglio scappare ancora» dice Okubai mentre mangia una brioche. Il ragazzo di vent’anni è uno dei tanti «spontanei» arrivati stremati fino a qui. Qui sono i marciapiedi della stazione centrale. Qui dorme, aspetta il cibo e l’acqua e da qui tenta di ripartire per costruirsi un futuro. È uno delle quattro-cinquecento persone che affollano gli spazi e i giardini intorno allo scalo. Dormono per terra, per materasso hanno un cartone. In tanti non si fidano dei volontari, hanno paura di essere registrati e preferiscono stare in piccoli gruppi.
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Eritrei, siriani, nigeriani, somali aspettano di varcare il confine per raggiungere la terra promessa in Germania, Olanda, Norvegia e Gran Bretagna.

Lui no, per lui la meta era Milano e finalmente l’ha raggiunta:«Ho paura. Ho tanta paura non per me ma per la mia famiglia rimasta in Eritrea».

Tra l’umanità della stazione centrale, oltre ai volontari, la polizia, gli addetti del comune ci sono anche gli informatori del regime. Parlano, si improvvisano traduttori, prendono informazioni sui connazionali in fuga.

Un servizio di intelligence informale per ricattare i familiari di chi scappa. Per le donne eritree invece il rischio di cadere nella rete della prostituzione.

IL QUARTIERE DELLA DIASPORA

Per la comunità originaria di Asmara, Massawa e Assab il centro di gravità è il quartiere di Porta Venezia, a meno di due chilometri dai binari.

Le vie punteggiate di bar, negozi e ristoranti etnici, punto di riferimento per le comunità del Corno d’Africa. E sopratutto la chiesa di San Carlo al Lazzaretto dove i profughi ricevono cibo e vestiti puliti.

Per loro è il quartiere della diaspora. Piazza Oberdan, via Lazzaro Palazzi, via Tadino, via Lecco, via Panfilo Castaldi, a pochi passi la via dello shopping di Corso Buenos Aires.

E poi, per la notte, i cespugli di viale Vittorio Veneto e i giardini Montanelli, accampati negli angoli bui e attorno ai bagni chimici del parco. Aiutati da connazionali (ma non solo) titolari di bar e phone center, che hanno contribuito ai pasti e, in alcuni casi, hanno messo a disposizione i locali per la notte.

Seduti sulle panchine, tra gli scalini immersi nel verde, con i vestiti nascosti tra i cespugli. Dormono, mangiano e aspettano l’occasione giusta per rifarsi una vita. Il trenta per cento degli oltre 57 mila migranti approdato in Italia dal primo gennaio sono eritrei.

IL TAPPO DELL’IMMIGRAZIONE

Una settimana tutta in salita per Milano, con la chiusura delle frontiere per il summit internazionale del G7, gli spazi negati in stazione, i casi di scabbia e le speculazioni politiche. Così la metropoli si è trasformata in un «tappo» dell’immigrazione.

Venerdì 12 giugno dieci nuovi casi di scabbia, (tra cui una donna che allattava e il suo bambino) e poi due persone con il sospetto di malaria registrati dal presidio medico per gli immigrati, aperto dalla Regione Lombardia in collaborazione con la Croce rossa e l'Asl, dopo mesi di richieste inascoltate di Palazzo Marino.

Le prime visite e le prime scoperte per chi vive da mesi in strada, non ha vestiti di ricambio e mangia quello che trova.

Nella stessa giornata un’altra mossa: le ferrovie decidono di chiudere i due grandi spazi che costituiscono l'ammezzato dell'ingresso, tra i monumentali scaloni il punto di raccolta dei nuovi arrivi. Reti e paratie pubblicitarie ne impediscono l'accesso, dopo che sono stati allontanati tutti i migranti.

Il problema viene semplicemente spostato all’esterno dove vengono aperte due strutture commerciali, una decina di sedie, un tavolo, dove possono sedersi, essere registrate e accolte le persone.

Due box in plexiglass destinati a boutique, ma al momento vuoti, dove si distribuiscono viveri, giochi, abiti e offrire uno spazio al coperto ai migranti, in una giornata di maltempo.

Qui si alternano i volontari delle associazioni che smistano a ciclo continuo vestiti, cibo e bevande. In tanti si mettono in coda per avere una maglia o una felpa.

Per tutta la giornata «ogni 10 minuti arriva qualche cittadino a portare aiuti» spiegano dalla fondazione Arca. Alle dieci di domenica sera ci sono centinaia di confezioni di biscotti, ma anche vestiti e giocattoli.

«Chiedono cosa serve e tornano con le buste del supermercato», racconta una volontaria, spiegando che adesso più del cibo è necessario fare provviste di sapone, shampoo, dentifricio, pannolini e assorbenti.

«Abbiamo visto questi bambini in tv. Noi abbiamo dei nipotini, così abbiamo deciso di venire oggi a portare qualcosa per loro» spiega una coppia che al banco per la distribuzione dei pasti hanno donato banane, latte, biscotti, formaggini, zucchero e yogurt.

Durante il week-end stesse scene di solidarietà in porta Venezia dove i residenti si sono dati appuntamento per regalare acqua e coperte.

Lentamente la situazione sta tornando alla normalità, mentre l’assessore alla politiche sociali del Comune Pierfrancesco Majorino fa due conti:«Nella notte tra domenica e lunedì abbiamo dato un letto a 1.400 persone. Da ottobre 2013 più di 65 mila persone sono passate da Milano e 10 mila dall’inizio dell’anno. Invece di speculare sulla loro pelle andrebbe trovata una soluzione politica più umana».

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