Passano, guardano, si interrogano, scattano una foto, ne parlano, oppure non vedono niente. «Da quello che sentivo alla radio mi aspettavo il peggio, una bolgia, invece è tutto tranquillo», dice un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta. Gli fa sponda un collega: «Nessun caos. Non che non ci sia il problema, perché il tema c'è, che siano 5, 10 o 5.000, il problema c'è lo stesso, lo vediamo anche da noi: veniamo da Torino e lì hanno preso degli alberghi dove li hanno sistemati e li vedi che non fanno niente». «Poveracci», «Povera gente», «Certo che».
Milano si sveglia lunedì mattina e passa con i trolley e le 24ore da quella Stazione Centrale battezzata dai media una “nuova Lampedusa” per il continuo passaggio di famiglie e migranti, bloccati in un limbo tra la chiusura delle frontiere con Francia e Germania e il rifiuto ad aspettare in Italia un documento (l'attesa minima è 8 mesi, la media più di anno) che riconosca loro lo status di rifugiati oppure li condanni alla clandestinità.
Le discussioni sono accese ai piani alti, il consiglio europeo è diviso, gli accordi per la condivisione delle responsabilità sono a rischio, l'unico aspetto su cui i politici di destra e sinistra concordano è la richiesta di espellere di più, di aumentare Cie e respingimenti, mentre Matteo Renzi lancia un piano B: l'accelerazione dei tempi per permettere ai profughi di ottenere un visto in tempi rapidi e quindi poter andare poi dove vogliono.
Intanto in stazione a Milano continua il passaggio di pendolari, turisti, lavoratori, e viaggiatori che camminano tra le transenne alzate per impedire ai migranti di raccogliersi dentro la stazione, lasciando che dormano in piazza o sotto il cortile. Lì ci sono bagni chimici, Croce Rossa e volontari a dare i pasti. Ma prima che i giovani con la pettorina possano aprire i pacchi destinati ai profughi c'è già Maria. Capelli raccolti, pantaloni bianchi, una borsa sotto braccio e tre sacchetti di Mac Donald's in mano. Silenziosa, si avvicina a un gruppo di eritrei che si sta svegliando (sono le 8.30) appoggiato a una colonna della stazione. E distribuisce acqua e panini comprati da lei al fast food lì di fianco.
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All'inizio loro la guardano straniti, poi le chiedono qualcosa di più. Ma è già finito tutto. Mi avvicino e le domando perché lo ha fatto. «Penso per me, non dipendo da nessuno. Sono una pensionata, è la seconda volta che vengo qui con qualcosa». Perché ha portato quei panini? «Così, mi sono trovata anch'io pressapoco nelle stesse condizioni: ho cercato di andare da un'altra parte ma non ci sono riuscita. Lo faccio, ma non c'è un motivo, mi sento di farlo, è un dovere, un piacere, anche una scocciatura però». Una scocciatura? «Non ho abbastanza soldi, abbastanza risorse», risponde: «Vorrei dare loro molto di più che qualche panino e dei succhi di frutta». Lei è bravissima, commento. «Non mi dica così no, no, no». E se ne va.
Passa una nonna con un bambino. «Povera gente», commenta: «Però hanno bisogno di lavarsi: questi altrimenti portano delle malattie. Certo, se scappano dal loro paese vuol dire che stanno peggio di qua, però il governo coi soldi che spende dovrebbe aiutarli a costruirsi una vita a casa loro. Perché così gli danno da mangiare, ok, ma domani? Dovrebbe insegnar loro a pescare. Così pescano, e sanno come procurarsi da mangiare per sempre».
Con il trolley e lo zainetto stanno attraversando il cortile due signore bionde. «Pensavo ci fosse molto più casino. Un allarme incredibile, si era preoccupate, invece è tutto tranquillo: viaggiando un po' sono abituata, e quello che sta accadendo qui è nella norma», spiega una delle due. «Noi si viene da Firenze e si pensava che fosse un caos, invece è almeno per ora è tutto a posto, questa è l'impressione che si è avuto. Infatti ci si è volute affacciare qui fuori per vedere dove stavano», aggiunge l'amica: «Ora si prende la metropolitana e si va all'Expo».
Confermano l'impressione due ragazze, adolescenti, Sara e Isabel: «Oggi ne ho visti pochi, ieri erano molti di più, sia sul piazzale e qui sotto la volta visto che fuori pioveva. Era ora di pranzo, e stavano dando i pasti. Erano tanti. Ma tranquillissimi. Mi dispiace per loro». Non è un'invasione? «Se questo è considerato “invadere” devo rivedere le mie categorie», risponde Isabel. Passa una signora coi tacchi e un vestito viola. Le chiedo dei profughi. «Sì ho sentito, li ho visti lì fuori, ma non so nulla di loro». È preoccupata? «Ma no, è solo strano, ma nessuno shock».
Stanno scendendo le scale due signori eleganti, giacca e cravatta, cellulare in mano. Problemi? «No, pensavo molto peggio, il sindaco è riuscito a riportare alla calma la situazione», dice uno. «Io trovo intelligenti le barriere per accedere ai binari solo con il biglietto. Con tutto il rispetto, era noioso scendere dal treno ed essere circondati fra elemosine o richieste. Meglio così». La stazione è infatti tutta una porta, transenne mobili o fisse che stabiliscono gli spazi di passaggio garantiti e quelli preclusi ai migranti, alle macchine o ai passeggeri. L'obiettivo è anche quello di togliere “i disturbi” dal via vai. «Io sono arrivato dalla metrò e non ho visto nulla», conferma infatti un ragazzone con gli occhiali da sole.
Fuori, vicino a una colonna, c'è un giovane con una valigia e una borsa. Sta scattando delle foto agli eritrei accampati. Si chiama Davide, spiega, ed è un medico romano: «A me sembra una cosa incredibile, assurda e inconcepibile», inizia a dire: «Io stavo a un congresso in un mega hotel, l'Hilton, qui a cento metri, e ogni volta che passo da qui, vedere la situazione così, sto male». Tira la camicia sui polsi. «Ho la pelle d'oca, perché la mia sensibilità mi impedisce di accettare un'urgenza sociale ed umana così. Non è una questione di accoglienza ma di identità: a nessuno importa chi siano queste persone, che normalità vorrebbero costruire».
«C'è un problema culturale enorme», continua: «In questo preciso istante stavo ascoltando quello che dicevano le persone. Dicevano: “Ci hanno messo tanto a rifarla bella questa stazione, guarda questi come stanno a rovinà”. Ieri stavo al congresso, ci hanno dato un cestino col pranzo - due panini - e un professore universitario fa: “Cioè manco caldo, quelli alla stazione sicuramente hanno ricevuto un pasto caldo e noi no”. E io allora a tavola ieri sera sono arrivato a sostenere che per me è giustificata pure la violenza da parte loro. Perché se fossi al posto loro, con dei bambini, e qualcuno mi dà un pasto caldo, va bene, ma io voglio avere una vita, un diritto a vivere. Se tutto il tempo in cui li aiutiamo continuiamo a pensare “Ah, che privilegiati che sono” c'è un problema culturale che non passerà».
Forse è passato almeno nella testa di una ragazza con le treccine e un trolley tutto colorato. «Io adesso gli ho dato un Pan Bauletto perché l'ho comprato ieri e poi non l'ho usato perché c'avevo il pane già in ostello». Normale, così.