Allo scadere del "Piano di emergenza per il Nord Africa" garantito dal governo, centinaia di stranieri in città si sono ritrovati completamente allo sbando. Senza abitazioni, occupazioni o minimo sostegno economico. E si sono riversati per le strade a ingrossare le fila dei senzatetto

Per Malik le lenzuola sono fogli di giornale stesi al parco. Il cuscino, un mucchio di sterpaglie. Essien, invece, si sveglia ogni mattina con il fischio del treno. Il suo monolocale è l'anfratto di una galleria, a pochi passi dalla stazione, fra il caldo infernale delle lamiere e l'odore pungente di escrementi. Cheik ha occupato una casa popolare: versando un affitto in nero di 300 euro al mese finanzia inconsapevolmente il racket delle occupazioni abusive. Nella parete della sua stanza, con vernice rossa, ha dipinto una frase: "Non ho attraversato il deserto per finire in una prigione".

La visita di Papa Francesco a Lampedusa ha riacceso l'attenzione sul problema dei profughi che ogni mese approdano sulle nostre coste. Gli ultimi barconi sono arrivati un giorno fa, con a bordo 150 migranti. Si tratta soprattutto di uomini e donne provenienti da Paesi africani devastati dalla guerra e massacrati dalle carestie, come Sudan o Etiopia. O reduci dalla primavera araba. Dopo tunisini e libici, ora tocca infatti agli egiziani, in fuga dal sangue di piazza Tahrir.

E così le città italiane rischiano di dover far fronte a un'altra ondata di migranti mentre ancora si ritrovano a dover gestire gli strascichi di quella precedente, del 2011. A Milano come a Roma, infatti, allo scadere del "Piano di emergenza per il Nord Africa" garantita ai profughi dal governo fino al scorso 31 dicembre (con relativa chiusura dei centri d'accoglienza datata 28 febbraio 2013) centinaia di stranieri si sono ritrovati completamente allo sbando. Senza abitazioni, occupazioni o minimo sostegno economico. E si sono riversati nelle strade delle città a ingrossare le fila dei senzatetto.

I numeri sono estremamente variabili, ma secondo le stime ufficiali del Viminale i profughi arrivati in Italia dopo il divampare della Primavera Araba sono circa 23 mila. A questi si devono aggiungere le oltre duemila persone che ogni anno raggiungono il nostro Paese per scappare dalle guerre dell'Africa centrale. Secondo l'Alto Commissariato per le Nazioni Unite per i rifugiati si calcola che le domande presentate nell'ultimo anno siano state quasi 30 mila. Mentre ad avere già ottenuto lo status in Italia, attualmente, sono circa 50 mila persone.

Profughi per i quali però - appunto - non esistono piani di inserimento sociale e sono destinati a rimanere ai margini della società. E se all'inizio la maggior parte di loro viene ospitata all'interno dei cosiddetti Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo), dove ricevono un posto letto da lasciare libero alle otto del mattino, per altri il posto non c'è. Nonostante anche l'Italia come membro della Ue abbia accesso al fondo europeo per i rifugiati, nel nostro Paese manca infatti una legge organica sull'asilo politico. Mentre la Chiesa - alla quale arriva il contributo dell'8 per mille del quasi 35 per cento degli italiani - non prevede finora la costruzione di nuovi centri di accoglienza. Tanto per fare un esempio, a Milano in un totale di 275 profughi, sono solo 50 quelli di cui si è fatta carico la Caritas ambrosiana. Stesso discorso a Roma, dove i centri gestiti dall'ente cattolico sono ormai saturi e non possono ospitare nuove entrate. E così i rifugiati diventano un esercito senza diritti.

La situazioni più gravi neanche a dirlo riguardano le due metropoli italiane, Roma e Milano. Nella Capitale la chiusura dei centri di accoglienza per i rifugiati decisa dal ministero degli Interni ha messo a rischio oltre 1.500 migranti, che hanno di fatto perso la loro qualifica di "rifugiati provvisori". Un "addio" che secondo le istituzioni è stato reso meno amaro dalla cifra di 500 euro, versata come congedo a ciascuno dei migranti. E che però molti di loro dichiarano di non aver mai ricevuto.

Dallo scorso febbraio, quindi, i migranti che si sono ritrovati senza un tetto sono andati a occupare i già sovraffollati "Hotel Africa" - così sono state ribattezzate quelle strutture abbandonate alla periferia della città - che già ospitano circa un migliaio di persone. Capannoni diroccati e fatiscenti dove gli "affitti" sono gestiti dalla delinquenza tutta italiana, che controlla le entrate e le uscite. A Roma però la maggior parte delle persone in fuga dalla guerra si è riversata alla stazione Termini, dove nelle ultime settimane gli accampati sono aumentati di diverse decine e la situazione sta diventando esplosiva.

Ma l'esplosione si rischia soprattutto in Lombardia, in particolare a Milano. Perché è lì che negli ultimi mesi hanno cercato accoglienza i profughi "respinti" dai comuni limitrofi allo scadere del piano di emergenza. Mal tollerati fin dall'inizio, le amministrazioni locali di area leghista hanno condotto una battaglia a colpi di esposti e manifestazioni che si è conclusa con la "diaspora" dei migranti verso il capoluogo. Che però si sta dimostrando impreparato ad accoglierli.

Secondo i dati ottenuti da l'Espresso, i richiedenti asilo accolti nella regione dall'inizio dell'emergenza sono stati 3.690. Un migliaio nel frattempo hanno lasciato l'Italia, mentre 2.036 sono rimasti. Di questi, 579 sono nella provincia, mentre 275 a Milano città. Solo a sette di loro è stato concesso l'asilo politico. Gli altri finora hanno goduto di una protezione sussidiaria. Uno status, però, non definitivo.

Attualmente Palazzo Marino - che durante il progetto governativo si è preso cura di 180 di loro sistemandoli in cinque diverse strutture convenzionate - si sta ancora facendo carico di una ventina di reduci del progetto ENA. Soprattutto persone anziane, o gravemente malate, alle quali sono state trovate delle stanze o abitazioni.

"Dopo la fine del piano emergenza abbiamo comunque cercato di sistemare chi è rimasto a Milano, dando ovviamente la precedenza ai casi più delicati, anche se dobbiamo tenere conto che i profughi non solo quelli dell'ultima emergenza del Nord Africa ma ce ne sono molti altri di presenza più antica", spiega a l'Espresso l'assessore comunale alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Che sottolineando gli sforzi della giunta Pisapia non manca di far notare la solitudine delle amministrazioni locali: "Il Comune non può farsi carico di tutti quanti senza che i governi offrano assistenza". Qualcosa di concreto, però, si sta già facendo. Come un recentissimo accordo con la Casa della Carità per ottenere aiuto e soprattutto un adeguato trattamento psicosociale per quelli più a rischio.

Il vero problema però sono quelli arrivati dalla provincia, che si sono riversati su Milano. Finora più di 200 persone. Nell'agosto 2011, ad esempio, per 400 di loro arrivati in blocco si erano aperte le porte del Residence Ripamonti di Pieve Emanuele. Che poi però sono stati invitati a lasciare. E così nei mesi scorsi, terrorizzati al pensiero di perdere il proprio alloggio, gli atti dimostrativi da parte dei migranti non si sono fatti attendere: prima hanno bloccato la strada provinciale per Opera. Poi hanno occupato gli uffici dell' anagrafe di Pieve Emanuele.

Dove sono finiti, invece, tutti gli altri? In mezzo a una strada, letteralmente. Centinaia di loro in questi giorni vagano fra l'area della Stazione Centrale e i bastioni di Porta Venezia, ribattezzata "l'Addis Abeba di Milano", perché vanta una storica presenza di etiopi e di attività commerciali africane. Sui muri del quartiere campeggiano frasi in vernice fucsia, scritte da un malinconico artista ribattezzato "Aku", che inneggiano alla terra perduta. Fra di loro, sono pochi quelli che hanno trovato lavoro, quasi tutti in nero. La loro situazione è variegata: ci sono quelli in possesso di un permesso provvisorio per motivi umanitari, quelli in attesa di asilo politico in balìà di intoppi burocratici e quelli che, invece, sono senza documenti. Fatta eccezione per un foglio, spesso rilasciato dal centro accoglienza di Lampedusa, sottoscritto e firmato senza conoscere una parola di italiano.

Perché il problema spesso è proprio questo: la mancanza di corsi di lingua e di inserimento rende impossibile ai migranti la ricerca di un lavoro. Mentre chi si trova nel limbo di richiedente asilo - da normativa - non può lavorare fino a che non ha ottenuto lo status.

Ma la presenza più ingente di rifugiati africani si incontra alla stazione Porta Romana, zona sud della città. Lì fra gli anfratti della ferrovia, in una zona riparata dagli alberi, si sono rifugiati dozzine di migranti provenienti dai Paesi dilaniati dalla guerra. Hanno messo in piedi alloggi di fortuna, fra stracci, falò, discariche all'aperto e ratti. L'ultimo sgombero da parte delle forze dell'ordine risale a poche settimane fa. Ma poi i profughi sono tornati, si sono riorganizzati, solo qualche metro più in là.

Le loro storie si assomigliano tutte: "Quando sono scappato da Tripoli mai avrei pensato di ritrovarmi in un altro inferno", racconta in inglese Ramal, ingegnere di 31 anni, occhi spenti e viso scavato "prima sono arrivato a Lampedusa, per fortuna non con una barca ma con una nave. Mi ricordo che avevo sempre sete, e facevo tante domande ai poliziotti. E loro mi dicevano: se vuoi bere stai zitto". "Poi mi hanno fatto firmare un foglio", prosegue il suo racconto, "era in italiano e non capivo nulla. So solo che c'era scritto che dovevo andare a Milano, e qui sono arrivato". All'ombra della Madonnina, però, come tanti altri, Ramal non ha trovato l'accoglienza che si aspettava. Dopo nove mesi trascorsi nell'hotel di Pieve Emanuele, si è trovato di nuovo per strada. In attesa di un permesso di soggiorno per motivi politici che sta ancora aspettando.

A Cheik è andata anche peggio. A marzo si è ritrovato dalla mattina alla sera senza un alloggio, e gli unici ad avergli offerto aiuto sono stati alcuni connazionali in Italia già da tempo, ai quali paga un sub-affitto di 300 euro al mese per un monolocale in via Montello 6, soprannominato "il fortino della mala", dove il racket delle occupazioni abusive è stato gestito negli ultimi dal clan calabrese dei Cosco.

Del resto a Milano la cattiva gestione dell'emergenza migranti ha una storia lunga e tormentata. Che negli ultimi dieci anni è stata segnata da episodi più o meno noti. Come il caso del palazzo di via Lecco 9, pieno centro cittadino, occupato nel 2005 da 250 cittadini africani. In loro favore, si mobilitarono anche Dario Fo e Franca Rame, cercando di sensibilizzare l'opinione pubblica su un problema trattato come la polvere sotto il tappeto. Sgomberato e demolito il palazzo - che ora diventerà un hotel di lusso - molti degli stranieri in attesa di asilo hanno trovato rifugio in una caserma abbandonata di viale Forlanini, a due passi dall'aeroporto Linate, anche questa però svuotata e distrutta dopo un anno.

Senza pace né sosta, i profughi hanno dunque occupato nel 2009 i giardini di porta Venezia, per poi essere sgomberati anche da lì. E a nulla sono valse manifestazioni, sit-in e presidi davanti alla Prefettura. Il problema resta evidente, tanto che fra il 2006 e il 2012 si è verificata un'anomala ondata di suicidi fra i profughi etiopi. "Queste persone, oltre che di una casa, hanno bisogno di un'assistenza psicologica", spiegano dall'associazione umanitaria Naga, "dobbiamo renderci conto che sono reduci da situazioni disumane nei loro Paesi e che attraverso viaggi della speranza in cui rischiano la vita per arrivare fin qui, dove pensano di trovare la pace, e invece trovano solo un'altra odissea".

Il problema viene affrontato seriamente anche dalla Questura, che tramite controlli e pattugliamenti spesso si trova a identificare molti di loro nei controlli di routine per le strade della città. "Ci dicono che sono profughi, ma in mano non hanno documenti, oppure mostrano solo un foglio di permesso provvisorio oramai scaduto", spiegano dall'ufficio immigrazione, "e noi come facciamo a distinguerli tutti?". E allora non può essere altrimenti, e vengono schedati con un termine che suona già come un verdetto: clandestini.

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