Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia

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Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”.

Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite.

La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor.

Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno.


Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte.

Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo.



A proposito dei raporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa?

Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la stuazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia.


Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’inflitrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.