“L'apparato", se così si può considerare la voce forte degli agenti del Sap (sindacato autonomo di polizia) - sostenuti da figure istituzionali quali Roberto Maroni, governatore della Lombardia, e il senatore Maurizio Gasparri - sembra disposto a tutto pur di bloccare l'introduzione del reato di tortura, previsto da una convenzione internazionale che lo Stato ha firmato ormai trent'anni fa. Senza ancora darne adempimento. Dopo veti e attese, sembrava arrivato il momento del sì, del riconoscimento di ferite mai rimarginate come quelle delle violenze alla caserma di Bolzaneto durante Genova 2001. Invece: dietrofront. Il testo, così stravolto, dovrà ricominciare l'iter da capo. Col rischio che un'altra legislatura si spenga prima di averlo approvato.

«C'è qualcosa di anomalo nel protagonismo di alcune sigle sindacali in questa battaglia contro la legge», sostiene Notari: «Questa sovraesposizione mediatica e politica fa male a tutte le forze di polizia. Anche perché non rappresenta la realtà». Secondo Notari infatti, le posizioni oltranziste del Sap contro l'introduzione del reato di tortura, accusato di mettere a rischio la “brava gente" , non raccontano la posizione diffusa degli agenti. Anche se ad oggi troppo silenziosa. Boicottando il testo della Convenzione di Ginevra, sostiene Notari: «La polizia dimostra uno spirito revanchista che fa male alla democrazia. È una reazione da appartenenti a un corpo e non da tutori della legge».
Per sostenerlo parte dalla sua esperienza. «A me hanno educato in un altro modo. I miei superiori mi hanno insegnato che una persona in stato di fermo, indifesa, consegnata alla nostra tutela, non si tocca. Mai - racconta il poliziotto in pensione - A volte anch'io ho rischiato di sbagliare, ma sono stato richiamato in tempo. Fermato dai miei colleghi più lucidi in quel momento, perché meno stanchi o coinvolti emotivamente». È un meccanismo di autotutela consolidato e necessario, spiega. «Anche i controllori», dice e ribadisce più volte nel corso dell'intervista, «Devono essere controllati. È per questo che la legge sulla tortura è giusta. Perché chi ha paura del controllo, chi si oppone al reato di tortura, dimostra di non poter controllare il suo ufficio, i suoi agenti».
Sostenitore della riforma “civile" del corpo di polizia del 1981, Notari ha una posizione chiara su quello che dovrebbe essere il rapporto fra agenti, cittadini e Stato. «Il nostro mestiere è vincolato in modo indissolubile alla Costituzione. Che all'articolo 54 scrive - “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge". Noi dobbiamo dimostrare disciplina e fedeltà alla Repubblica. E la legge contro la tortura, nella sua prima formulazione, è solo un'estensione pratica di questo concetto fondamentale».

«Fu il primo caso di malapolizia dopo la riforma con il ricorso a strumenti illegittimi per estorcere la verità. I fatti accaddero alla vigilia del primo congresso nazionale del Siulp che contava già 40.000 iscritti e che si svolse nel 1982 - racconta Notari nel libro - Il caso Dozier frenò e minò il cambiamento, perché come ormai rituale in tali situazioni la polizia si ripiegò in se stessa, si affidò ai tifosi, chiedendo consenso e provando a ricostruire l’infausta separatezza dalla società».
«Si trattò di un meccanismo infernale che si è poi ripetuto nel corso della storia», continua il poliziotto in pensione: «Di fronte agli errori operativi e agli abusi, l’apparato tende a rinforzarsi e le strutture democratiche a indebolirsi. La polizia si auto-rappresenta come un totem, mettendo a rischio
la necessaria trasparenza di un’istituzione. È successo, vent’anni dopo, anche a Genova, nel 2001, l’anno del G8».