La fine dell'industria è un fenomeno che ha modificato per sempre il nostro habitat urbano. In peggio o in meglio? Tutte e due. Ecco perché

È dedicata ai numeri di un’Italia in dismissione, la copertina dell’Espresso arrivata in edicola domenica 16 ottobre con Repubblica. O meglio, è dedicata ai numeri di un’Italia senza più industria, un’Italia che sta chiudendo, che ha già chiuso. Negli ultimi 25 anni, infatti, Fiat, Eni e Telecom - per dire - hanno perso due terzi dei dipendenti. Un po’ è la delocalizzazione, un po’ sono i consumi che cambiano, un po’ è banalmente la crisi. Che ha così stravolto, però, anche la faccia delle nostre città.

Per carità: le città sono in continua mutazione, negli ultimi cinquant’anni se ne sono create di sempre più grandi. «La città è divenuta metropoli, con una profonda trasformazione delle relazioni so­ciali; e la metropoli è stata assorbita da grandi regioni urbane policentriche», è l’evoluzione fotografata da Marco Cremaschi, che insegna Teorie urbanistiche e Politiche urbane all’Università Roma Tre, «e ovunque si registra una marcata tendenza alla suburbanizzazione: nel 90 per cento degli agglomerati urbani, la popolazione dei bor­ghi periferici, spesso comuni di prima e seconda cintura, è cresciuta più che al centro». Alcune città si popolano sempre più, altre si spopolano. Ma i loro cambiamenti dicono molto, sempre, della società, delle contraddizioni dell’economia, delle relazioni tra le persone.
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Una città che produce sempre meno, ad esempio, può esser una città che consuma sempre di più. In Italia, infatti, il quarto datore di lavoro è ormai Coop - raccontiamo sull’Espresso - il colosso della grande distribuzione. Ha oltre 54mila dipendenti, che sono solo 30mila in meno di Fiat, che però nel 1990 ne aveva ancora 237mila. Fiat oggi ne ha un terzo di allora, Coop ha invece raddoppiato i suoi dipendenti. In proporzione, poi, ha fatto persino meglio Esselunga della famiglia Caprotti, che ha “solo” 20mila dipendenti ma ne aveva 5mila nel 1990. Così le fabbriche diventano condomini, discoteche o ruderi, e i quartieri si riempiono di supermercati. Spesso aperti notte e giorno, perché i consumi non devono fermarsi mai.

Proprio dalle corsie di un Carrefour 24/7 Christian Raimo, scrittore e professore in un liceo romano, per Internazionale ha firmato un bellissimo reportage notturno: «L’idea dei dirigenti di Carrefour», spiega all’Espresso, «è quella che questi luoghi siano anche luoghi di socializzazione. Ma la loro è una frase buona solo per gli spot, e non solo perché dovremmo rassegnarci all’idea che l’unica socializzazione possibile sia quella dello shopping». «Molti dei lavoratori che ho conosciuto», ci dice, «mi hanno anzi raccontato come proprio il lavoro h24, i turni di sabato, la domenica e di notte, li abbia isolati». Sono dunque cittadini più soli quelli delle città che consumano h24, «anche perché l’altra faccia del lavoro notturno di una cassiera, è la giornata frenetica di chi non ha altro tempo per fare la spesa che la notte». E non solo: «Una città dei consumi è una città che sarà sempre più disuguale», continua Raimo, «una città doppia sempre più godibile per chi ha una certa disponibilità, e sempre meno vissuta da chi non può stare al suo ritmo di consumo».

A limitare i danni, o almeno a dare un ordine, dovrebbe esser l’urbanistica. Che però è la grande assente, soprattutto nelle grandi città, nelle città che sono spalmate più che diffuse. «L’urbanistica in Italia non esiste», conferma all’Espresso l’antropologo Franco La Cecla, che non per nulla ha pubblicato per Einaudi “Contro l’urbanistica”, agile lettura consigliatissima: «So benissimo che è come sparare sulla Croce rossa, ma è evidente a tutti che le nostre città sono cresciute sui disegni dei palazzinari, con il grosso dell’urbanistica impegnata, ben che va, a elaborare qualche bellissimo volo pindarico». Per La Cecla, però, non bisogna disperarsi. Anzi. «Perché le città», ci spiega, «fortunatamente stanno cambiando anche senza l’urbanistica e stanno, perlopiù, diventando dei posti migliori». «Bisogna essere degli appassionati operaisti», infatti, «per rimpiangere le fabbriche in città. Chi sopporterebbe, oggi, una ciminiera a pochi metri dalla finestra?».

Già: chi sopporterebbe di vivere in un quartiere operaio dei primi del Novecento? Nessuno. Il punto però non è quello, il punto è capire se possono sopravvivere città che offrono sempre meno lavoro - e lavoro sempre più precario. La Cecla è però ancora una volta ottimista perché «il cambiamento che stiamo vivendo non è solo economico ma antropologico», dice, e basta vedere com’è cambiata una città come Milano: «La Milano di oggi è meglio anche se non è più la Milano delle fabbriche, è meglio perché ha una migliore qualità della vita». È più bella Milano, che in effetti si è scoperta meta turistica: «Questo devono esser le città», continua La Cecla, «luogo di bellezza, di socialità e di produzione, sì, ma raffinata, che non ha bisogno di industria pesante né di meccanica. E di consumo, perché no, visto che fortunatamente non si è così americanizzato, tant’è che insieme ai centri commerciali cittadini e turisti cercano ancora il bar di quartiere».

Eccoci allora, però, alle città di Airbnb, della sharing economy e, soprattutto, della gig economy, l’economia dei lavoretti. Affittando la camera degli ospiti non si mantiene una famiglia, «ma le città ospitali creano lavoro di relazione, che può esser molto di più di quello che abbiamo adesso», dice l’antropologo che punterebbe sulle pedonalizzazioni, sul recupero dei centri storici («al Sud sono ancora quasi tutti luoghi malfamati») e sui trasporti pubblici («Un monumento al sindaco che vieta i suv», scherza). Si può lavorare più sul turismo, più sui servizi, «più sulla bellezza», per La Cecla, tenendo presente che il resto del lavoro, tanto, pare destinato «ad esser sempre più dequalificato, sempre più sfruttato». Quel poco di lavoro che resterà, peraltro. Perché sempre sull’Espresso in edicola domenica, Martin Ford, imprenditore della Silicon Valley, spiega a Fabio Chiusi come e perché «la deindustrializzazione, l’automazione in fabbrica e le aziende che delocalizzano sono soltanto la prima fase di un’evoluzione che finirà per estendersi a molti altri settori dell’economia».

E le città dovranno così cambiare ancora. Come? Dipende dalla politica e dall’urbanistica, ovviamente - sempre che decidano di avere un ruolo. «Perché se è vero che il mondo va in una direzione, che la produzione e i consumi cambiano, è vero anche che la politica può contrastare alcune tendenze», dice invece Raimo, che è molto meno ottimista. I prezzi delle case (che l’uso turistico fa ovviamente alzare), le destinazioni d’uso dei magazzini, l’offerta di spazi pubblici. E anche il lavoro, il reddito delle persone: urbanistica e politiche pubbliche possono fare molto. In Germania e in Francia, ad esempio, non esistono supermercati aperti h24, e a Friburgo ad esser aperte tutta notte sono invece le biblioteche.

«E poi basta pensare al caso Foodora», alla protesta dei fattorini che consegnano a domicilio il cibo guidati da una app: «Con le loro pettorine rosa pedalano anche nelle città francesi», continua Raimo, «ma lì non vengono pagati a cottimo, meno di tre euro a consegna, come da noi, ma all’ora, sette euro come minimo». Lavoratori pagati meglio o con un reddito minimo, dunque, per avere cittadini che saranno meno esclusi nelle città dei consumi. «L’urbanistica da sola non può risolvere le disuguaglianze che sempre più caratterizzano le nostre città», conferma all’Espresso Paolo Berdini. Urbanista e assessore tecnico della giunta romana di Virginia Raggi, Berdini alla crisi dei grandi comuni italiani e del welfare urbano ha dedicato un recente saggio, "Città fallite" (Donzelli, 2015). E infatti aggiunge: «Il reddito di cittadinanza e un welfare adeguato sono pilastri altrettanto fondamentali per evitare che le città falliscano, sommerse non solo dai debiti spesso generati proprio da un’urbanizzazione scellerata».