Nei documenti economici l'esecutivo nasconde il costo degli strumenti finanziari più speculativi. Che nel 2015 hanno aumentato il debito dello Stato di 6,7 miliardi. Un record

È una delle voci del bilancio pubblico che in questi anni ha fatto più discutere. Se cercate però il termine “derivati” negli ultimi documenti che definiscono le politiche economiche del governo di Matteo Renzi, e che in queste settimane fanno la spola tra Roma e Bruxelles, è difficile trovarne traccia.

Eppure, la questione delle perdite che lo Stato italiano registra su questo genere di strumenti finanziari - molto complessi e ritenuti da alcuni troppo speculativi per essere adatti a un’amministrazione pubblica - preoccupa gli addetti ai lavori.

La scorsa primavera, l’Ufficio parlamentare di bilancio vi aveva dedicato una specifica sezione nel rapporto in cui esaminava la manovra economica elaborata dal ministro Pier Carlo Padoan, il cosiddetto Documento di economia e finanza (Def). Non ne era nato uno scontro aperto come quello scoppiato più di recente, a inizio ottobre, quando l’ufficio presieduto dall’economista Giuseppe Pisauro ha messo nel mirino il governo per le stime troppo ottimistiche sulla crescita del Pil prevista per il 2017.
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Tuttavia, le osservazioni messe nero su bianco da Pisauro e dai tecnici dell’Ufficio suonavano piuttosto dure. «Nel Def non vengono fornite informazioni sull’effetto atteso dai derivati», si leggeva nel rapporto, che osservava come i costi sostenuti dal Tesoro per far fronte alle perdite siano via via cresciuti, determinando nel periodo tra il 2011 e il 2015 un incremento del debito pubblico pari in media a 4,7 miliardi di euro l’anno. Di qui l’invito a non nascondere nei costi generali la voce dei derivati, i cui «effetti andrebbero autonomamente evidenziati».

Può sembrare una questione tecnica, da puristi dei bilanci. Purtroppo non lo è, per almeno due motivi. Il primo è che, in questi anni, la crescita della spesa necessaria per far fronte alle perdite sui derivati è avvenuta nonostante il Tesoro abbia rinunciato da tempo a sottoscriverne di nuovi. Le perdite che si stanno riversando sui conti pubblici, dunque, rappresentano le ricadute dei contratti firmati in passato, prima del 2012, e che ancora oggi il Tesoro è costretto a onorare o a rinegoziare, spalmandone gli effetti negativi nel tempo.

Il secondo motivo è che sull’operazione più discussa che sia mai giunta alla luce del sole, ovvero i 3,1 miliardi di euro versati nel 2012 alla banca d’affari americana Morgan Stanley per chiudere una parte dei derivati sottoscritti in precedenza, la scorsa primavera la Corte dei Conti ha aperto un’indagine, avviando un procedimento di contestazione per danni dal valore miliardario.

Per il governo, dunque, la trasparenza sui derivati dovrebbe essere una questione della massima urgenza, visto l’enorme ammontare dei contratti ereditati dal passato e l’impatto che continueranno ad avere sui conti pubblici per lungo tempo ancora. Eppure, anche nella Nota di aggiornamento del Def pubblicata a fine settembre e poi diventata oggetto delle trattative di questi giorni con la Commissione europea, di quanto l’Italia pagherà nel 2016 e nel 2017 per i derivati non ci sono informazioni.

Per avere un’idea delle cifre in gioco, si può partire dai contratti più diffusi nel portafoglio dello Stato, i cosiddetti “Interest rate swap”. Che cosa sono? Sono accordi con i quali il Tesoro si impegna a scambiarsi con una banca che fa da controparte un flusso d’interessi a scadenze prefissate, in genere una o due volte l’anno. Per un certo numero di anni lo Stato paga sempre la stessa cifra, individuata applicando un tasso fisso a un valore di riferimento, chiamato nozionale. La banca, invece, paga un tasso variabile, legato all’andamento dei mercati. Un esempio: dato un valore nozionale di un miliardo, lo Stato versa all’istituto una volta l’anno il 3 per cento; la banca, invece, l’Euribor a 12 mesi. Se l’Euribor è sopra il 3 per cento, lo Stato incassa più di quanto paghi, dunque ci guadagna. Se è sotto, a festeggiare è invece la banca.

DERIVATI, I PEGGIORI D'EUROPA



Ebbene: come si vede dai grafici di pagina 54, nel 2015 lo Stato italiano ha speso in interessi sui derivati quasi 3,2 miliardi di euro in più di quanti ne abbia incassati. Un costo enorme, anche se ci sono stati anni peggiori, come il 2012 (3,8 miliardi) e il 2014 (3,6). Purtroppo, però, queste cifre non esauriscono gli effetti dei derivati sui conti pubblici. Gli accordi sottoscritti dal Tesoro con le banche possono essere infatti ben più complicati del semplice swap descritto sopra, e prevedere costi che non ricadono nella classificazione degli interessi.

Da qualche anno, Bruxelles ha obbligato gli Stati dell’Unione europea a comunicare una voce che fotografa questi effetti, in termini di maggior debito per i Paesi membri. I dati, in questo caso, sono disponibili dal 2011 e proprio l’ultimo anno noto, il 2015, per l’Italia è stato il peggiore, con 3,5 miliardi di debito pubblico in più. Ecco perché, come si vede dai grafici qui a sinistra, la situazione negli ultimi tempi si è fatta particolarmente difficile: sempre nel 2015 l’effetto complessivo dei derivati sul debito pubblico è stato negativo per 6,7 miliardi. Un record, che porta la media dell’ultimo quinquennio ai 4,7 miliardi calcolati dall’Ufficio parlamentare di bilancio.

Va detto che negli ultimi tempi il governo ha iniziato a sollevare un po’ il velo di segretezza che da sempre nasconde questo genere di contratti, in gran parte sottoscritti con le grandi banche internazionali. La molla è stata il malcontento piovuto sul Tesoro durante un’indagine conoscitiva ad hoc, condotta lo scorso anno dalla Commissione Finanze della Camera, dove i partiti d’opposizione hanno sottoposto il governo a critiche molto circostanziate, espresse anche da numerosi esperti del settore. L’autunno scorso Padoan ha divulgato per la prima volta un rapporto sul debito pubblico, relativo al 2014 e ancora lacunoso sui derivati. Lo scorso mese di luglio è arrivata la seconda edizione, relativa al 2015, più circostanziata e dettagliata.

Nel documento la difesa di fondo del ministero dell’Economia è quella di sempre: i derivati rispondono a una funzione assicurativa, perché dovevano proteggere il bilancio pubblico dal rischio di un aumento dei tassi d’interesse. Il come non è difficile da comprendere. Provate a immaginare che, nello swap del nostro esempio, l’Euribor salga stabilmente sopra il 3 per cento. La banca controparte sarebbe costretta a versare un flusso netto d’interessi per tutta la vita residua del contratto, finanziando di fatto il Tesoro. Il quale, con quei quattrini, potrebbe fronteggiare i costi aggiuntivi che subirebbe su altre voci del debito pubblico, come ad esempio gli interessi pagati ai sottoscrittori dei Btp.

Tuttavia, negli ultimi anni, lo scenario di un aumento dei tassi d’interesse si è parecchio allontanato. Dopo la depressione del 2008 e la crisi del 2011, che ha aperto la strada agli interventi della Banca centrale europea culminati nel 2015 con il “Quantitative easing”, i tassi sono precipitati quasi a zero. E il Tesoro si è ritrovato a fronteggiare perdite che, fino a qualche anno fa, poteva sembrare difficile aspettarsi.

L’errore di fondo, obiettano i critici, è che uno Stato non dovrebbe scommettere sui futuri andamenti dei mercati, nemmeno sui tassi. O che, al limite, dovrebbe farlo con strumenti che prevedono precisi meccanismi di limitazione delle perdite, una protezione che nei contratti sottoscritti dal Tesoro - nessuno dei quali mai divulgato al pubblico e nemmeno ai parlamentari che ne hanno fatto richiesta - almeno in apparenza non sembra essere prevista.

Per toccare con mano il diverso atteggiamento che, sui derivati, hanno avuto gli altri Paesi europei, bisogna andare a spulciare le cifre che ognuno di loro è tenuto a comunicare all’Eurostat. L’ufficio statistico europeo raccoglie infatti le comunicazioni che servono alla Commissione di Bruxelles per verificare il rispetto dei parametri del deficit e del debito pubblico. E, per farlo, ha cercato di uniformare le comunicazioni che arrivano dai diversi governi. Sui derivati i risultati non sono molto soddisfacenti, perché i dati giungono in parte in ritardo, in parte non del tutto uniformi.

Basta però un’occhiata a quelli riportati a pagina 53 per porsi alcuni interrogativi. Si tratta di una voce dei bilanci statali che, nel format dell’Eurostat, ai derivati somma i debiti degli Stati derivanti dalle stock option in mano ai dipendenti pubblici. Di fatto, però, il grosso dovrebbe essere rappresentato dai derivati stessi. Le cifre ne fotografano il valore di mercato, ovvero il flusso netto degli interessi che, alle quotazioni correnti, ogni Stato potrà incassare (se il segno è positivo) o dovrà versare (se negativo) per effetto dei contratti sottoscritti con le banche, nell’intera vita residua di tutti i contratti. Chiaramente, nel tempo, i tassi d’interesse potranno variare ma occorre considerare che, almeno negli anni più vicini, i profitti o le perdite quantificate dal valore di mercato hanno una più elevata probabilità di verificarsi.

Ecco il punto: vari Paesi dell’Unione, tra i quali la Spagna e il Belgio, di derivati non ne hanno mai fatti. La Germania ci sta perdendo, anche parecchio, ma meno dell’Italia, che domina la classifica dei Paesi europei più inguaiati con i derivati, in rosso per quasi 32 miliardi. Altre nazioni, invece, ci stanno guadagnando fior di quattrini. Non si tratta soltanto dei valori di mercato, ma anche di soldi che annualmente entrano o escono dalle casse pubbliche in termini d’interessi. Come abbiamo visto, nel 2015 solo per questa voce l’Italia ha versato alle banche più di 3 miliardi. In base alle comunicazioni Eurostat, invece, nello stesso anno l’Olanda ha incassato 5,3 miliardi, su un portafoglio derivati che ha valore di mercato di positivo per quasi 18 mercato. Chissà se Padoan, al prossimo consiglio dell’Ecofin, chiederà al collega olandese Jeroen Dijsselbloem come ci è riuscito. E se può darci qualche consiglio.

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