Oltre 23 miliardi di euro per la difesa nel 2017. Cinque miliardi e 600 milioni per gli armamenti grazie al ministero dello Sviluppo economico e i contratti per altri sette supercaccia F-35. Più di quanto previsto nei documenti dell’anno scorso. Tutto nel rapporto dell’osservatorio Mil€x

Nessuno tocchi il soldato italiano e le sue armi. Niente tagli alle spese militari, la spending review rimane fuori dalla caserme, dai porti e aeroporti che ospitano i nostri tank, fregate e aerei. Una scelta politica ben precisa del governo Renzi che su questo importante settore della nostra economia ha deciso di spingere sull’acceleratore.

«Sulla difesa non si può più tagliare, dopo che negli ultimi dieci anni le risorse a disposizione sono state ridotte del 27 per cento. Tutto quello che si doveva tagliare si è tagliato, ma ora su questo capitolo è venuto il momento di tornare ad investire», ha spiegato il ministro della Difesa Roberta Pinotti lo scorso settembre.
Ecco la linea governativa: «cambiamo verso» e torniamo a puntare sull’eccellenza made in Italy del comparto armi.

Mil€x, l’osservatorio sulle spese militari italiane, ha però un’altra versione dei fatti e delle spese. Una versione discrepante rispetto a quella che emerge dai bilanci dello stesso Ministero, che per il decennio citato dalla Pinotti mostra non un taglio bensì un aumento delle risorse del sette per cento, passando da 19 miliardi a 20 miliardi e 300 milioni.

In sostanziale costanza del rapporto budget Difesa/Pil (1,28-1,25 per cento) dato, quest’ultimo, indicativo della volontà politica di destinare alla Difesa una porzione fissa della ricchezza nazionale.

Mil€x ha spulciato anno per anno la legge di bilancio e anticipa alcune delle analisi e dei contenuti che verranno pubblicate a gennaio 2017 nel “primo rapporto annuale”.


In esame le risorse destinate dallo Stato, in varie forme, alla spesa militare e non la spesa effettivamente sostenuta, quindi il budget assegnato, non la sua gestione di cassa.

Ecco come emerge la spesa quotidiana che il nostro Paese sosterrà per il 2017: 64 milioni di euro al giorno (2,7 milioni di euro all’ora), un maxi-assegno da 23 miliardi e 377 milioni, con una crescita dello 0,7 per cento rispetto al 2016. In questo enorme calderone il personale rimane voce di spesa più onerosa per lenta applicazione della riforma Di Paola e si traduce in più comandanti che comandati, un’esercito di 90 mila ufficiali senza però una truppa che esegue gli ordini, appena 81mila i ranghi più bassi. 

Il costo degli armamenti segue lo stesso trend e salgono a 5 miliardi e 600 milioni per l’aumento dei contributi del Ministero dello Sviluppo economico che decide di destinare l’89 per cento degli incentivi per le imprese proprio a chi produce tecnologia, radar e missili.

«Urgenza e dimensione del budget militare è determinato non da reali esigenze di sicurezza nazionale ma da logiche industrial-commerciali che hanno come effetto programmi sproporzionati rispetto alle necessità», spiegano gli autori del dossier Enrico Piovesana e Francesco Vignarca: «Programmi giustificati gonfiando le necessità stesse, come nel caso dei caccia F-35 o delle navi da rimpiazzare con le nuove, oppure ricorrendo alla retorica del doppio uso militare e civile: la nuova portaerei Trieste è stata presentata come nave umanitaria per il soccorso nel Mediterraneo».

LO SVILUPPO IN ARMI

Nello shopping bellico made in Italy ci sono anche i massicci contributi finanziari del ministero dello Sviluppo Economico, guidato dall’ex manager montiano Carlo Calenda.
Tra stanziamenti diretti e contributi pluriennali si raggiunge la cifra di tre miliardi di euro alll’anno, cioè gran parte dell’intero budget destinato alla principale missione del dicastero, ovvero gli investimenti a sostegno della “Competitività e sviluppo delle imprese”.
In questa selva di fondi pubblici ci sono anche i «programmi europei aeronautici, navali, aerospaziali e di elettronica professionale» che  includono «lo sviluppo e la costruzione del nuovo velivolo da difesa European Fighter Aircraft, la realizzazione di innovative fregate della classe Fremm (Fregate Europee Multi Missione) e lo sviluppo del programma Vbm (Veicolo blindato medio Freccia), più «una serie di programmi di particolare valenza industriale per l’impegno in innovazione tecnologica e per lo sviluppo e il consolidamento della competitività dell’industria aerospaziale ed elettronica high tech e nel contempo di elevata priorità ed urgenza per la difesa».

Le aziende del comparto difesa beneficiarie dei finanziamenti targati Mise sono principalmente quelle del gruppo Finmeccanica-Leonardo, Fiat-Iveco e Fincantieri. La scelta di destinare gran parte dei finanziamenti per le imprese a questo settore, che in Italia conta 112 aziende (12 grandi e cento piccole e medie) per un totale di 50 mila occupati e 15,3 miliardi di fatturato, rischia di penalizzare il settore industriale civile e in particolare il comparto della Pmi, che da solo conta (al netto delle micro-imprese con meno di 10 dipendenti) 137 mila aziende per un totale di 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato.

Se i bilanci della Difesa vengono asciugati quelli del Mise sono stati “rimpolpati” grazie ad leggina ad hoc del 1985 per lo sviluppo e l'accrescimento della competitività delle industrie operanti nel settore aeronautico. Da quella decisione del governo Craxi ogni anno puntuale si è ripetuta la sovvenzione all’industria militare nazionale, con un conto totale di oltre 50 miliardi di euro, considerando solo i programmi principali.

Per la Marina è un vero bingo. Nel 2015 è riuscita ad ottenere dal Parlamento il via libera all’acquisto di una seconda portaerei e di sette fregate al costo di 5,4 miliardi spacciando la prima per un “unità anfibia multiruolo per il concorso della Difesa ad attività di soccorso umanitario” e le seconde come “pattugliatori polivalenti d’altura per la sorveglianza marittima tridimensionale, il controllo flussi migratori, soccorsi in mare, tutela ambientale”.

Dopo l’approvazione parlamentare del programma ottenuta con l’abile ricorso alla retorica del “dual use” militare-civile, le reali dimensioni e i costi delle nuove unità navali si sono rivelati maggiori di quanto inizialmente comunicato al Parlamento, rivelando la vera natura di queste navi.

Anche in questo caso, la necessità di acquistare sette nuovi “pattugliatori”  è stata giustificata dall’esigenza di rimpiazzare ventotto navi di cui è prevista la graduale dismissione entro il 2025. In realtà di queste ventotto navi, sei erano state dismesse già da tempo e altre sei di recente acquisizione non necessitano rimpiazzo immediato, quindi le navi da rimpiazzare risultano sedici.

Quando queste nuove navi entreranno in servizio, la Marina italiana schiererà due portaerei e diciannove unità di primo rango superando la Marina francese e ponendosi al pari della potenza navale inglese.

PER SEMPRE F-35

Emblematico il caso del programma di acquisizione dei cacciabombardieri americani Joint Strike Fighter, i criticatissimi F-35 prodotti da Lockheed Martin avviato nel 2009. Il requisito iniziale di 131 aerei (al costo di 16 miliardi), successivamente ridimensionato a 90 velivoli nel 2012 (al costo di 13 miliardi), è stato ed è tutt’ora giustificato dalla necessità di rimpiazzare 253 aerei da attacco tra Tornado (100), 68 Amx (136) e Harrier (18).

Nel 2009 i velivoli da attacco in servizio da rimpiazzare erano in realtà 162 senza contare che tra il 2004 e il 2009 l’Aeronautica aveva già ordinato  68 Eurofighter Typhoon, considerati dagli esperti un’alternativa validissima, se non 70 superiore, agli F-35.

Una scelta che la cancelliera Angela Merkel ha preferito per la sua Germania acquistandone 110 esemplari. In un rapporto riservato inviato al Parlamento nel 2014 da ex alti ufficiali dell’Aeronautica ed ex dipendenti di Alenia (Finmeccanica) la flotta aerea da attacco italiana è giudicata più che sufficiente rispetto alle esigenze operative e strategiche del nostro Paese e il programma F-35 assolutamente “sproporzionato”: «L’F-35 è un progetto da superpotenza sproporzionato per le esigenze strategiche del nostro Paese. È significativo che né Francia né Germania partecipano al programma, contrariamente al Regno Unito che però ha un bilancio della Difesa che è tre volte il nostro e inoltre ha un rapporto strategico unico con gli Stati Uniti. Quel che abbiamo in termini di mezzi aerei e quello che è in via di immissione in servizio basta e avanza».

Nonostante l’avvertimento e nonostante il Parlamento nel 2014 abbia votato una mozione di maggioranza che impegnava formalmente il governo a “dimezzare” il budget 73 originario del programma per i caccia americani, il requisito della Difesa non ha subito alcuna modifica, se non una dilazione delle acquisizioni, e il budget è anzi aumentato da 13 a 13,5 miliardi.

Sono poi arrivati i problemi tecnici con i serbatoi del jet che potrebbero perdere carburante per l’eccessiva pressione durante alcune manovre in volo, e poi rischi per le pale della turbina del reattore e le criticità del seggiolino eiettabile.

L’Italia nonostante gli incidenti durante i voli di prova e le dichiarazioni del premier Matteo Renzi che a luglio 2012 disse «Non capisco perché buttare via così una dozzina di miliardi», ha continuato a firmare contratti d’acquisto rateali anche nel corso del 2016, versando ulteriori acconti per altri sette cacciabombardieri oltre agli otto già acquistati, al costo medio di 150 milioni l’uno.

AIR FORCE RENZI

Un altro notevole aumento di costi nel 2017 riguarda una delle sotto-voci delle spese per “Funzioni Esterne”, quelle per il trasporto aereo di Stato (i cosiddetti “aerei blu”) che sale a 25,9 milioni, con un incremento di quasi il 50 per cento rispetto ai 17,4 milioni del 2016.

La quasi totalità di questa cifra, 23.503.075 euro, è il costo del nuovo Airbus A340 della Presidenza del Consiglio in forza al 31° stormo dell’Aeronautica Militare. Il jet con la livrea bianca e la scritta «Repubblica italiana» è stato utilizzato solo una volta in un anno per una missione di imprenditori italiani a Cuba ma viene avvistato periodicamente negli scali di Milano, Torino e Pisa.

Dopo le polemiche e la sovraesposizione mediatica ecco svelato il costo: per otto anni, dal 2016 al 2023 messi a bilancio 168,2 milioni per noleggio e assicurazione più 55 milioni di carburante, per un totale di 223,2 milioni. L’air force Renzi è stato preso in leasing — a noleggio — da Etihad, compagnia degli Emirati Arabi Uniti e proprietaria del 49 per cento di Alitalia.