Da House of Cards a The Crown, ha cambiato l’intrattenimento domestico. Ted Sarandos, l’uomo che guida l’azienda americana racconta risultati e strategie

Adesso tutti lo definiscono un visionario, l’uomo che ha cambiato per sempre prima per gli americani e poi per il resto del mondo come si guarda ma anche come si produce televisione. Ogni rete del pianeta ha sempre operato con palinsesti fissi e seguendo formule di programmazione rimaste immutate per oltre mezzo secolo, con gli inevitabili intermezzi pubblicitari. Ora quest’ordine è stato scardinato. E Ted Sarandos, il manager alla guida di Netflix, è diventato l’uomo-simbolo di questa rivoluzione.

La chiamano la “Golden era” della televisione perché spesso è ormai superiore al cinema per qualità e contenuti e perché anche le stelle più grandi, da Brad Pitt a Woody Allen, da Travolta alla Streep, fanno a gara per lavorarci. Ma è anche un’era che ha visto cadere tutte le certezze, a cominciare da quella della serie che va in onda una volta alla settimana a un’ora precisa e immutabile. Perché adesso siamo al “anytime and anywhere”: in qualunque momento, quando fa comodo allo spettatore; e ovunque, che sia a casa o in treno o anche al lavoro. E attraverso un apparecchio tv tradizionale, ma anche su computer, tablet o telefonino.

Tv
Netflix, le ambizioni globali della creatura di Ted Sarandos
15/12/2016
Sarandos, ufficialmente Chief content officer, cioè direttore editoriale, è di fatto la forza creativa e propulsiva dietro Netflix. È cioè la persona che ha fatto di questa società nata negli anni Novanta come un servizio che mandava dvd a casa dei suoi abbonati prima via posta e poi via Internet, il gigante che ha scosso alle sue fondamenta il mondo della televisione e del cinema. Basta con l’ossessione per gli indici di ascolto e i palinsesti. Basta con le serie di una lunghezza pre-definita. Basta con la televisione vista come il ripiego per chi non ce la fa nel cinema. Basta con le serie assaporate nell’arco di una stagione. E invece via al “binge watching”: tutto consumato in un solo boccone, in una domenica di pigrizia piuttosto che in una notte di insonnia.

Un visionario, Sarandos. Ma se qualcuno gli avesse domandato, tre anni fa, se sarebbe stato realistico immaginare, dopo “House of Cards” , la prima serie realizzata da Netflix, successi di critica e di pubblico come “Narcos” e come “Orange is the New Black”, come “Master of None” e “Daredevils”, Sarandos avrebbe detto di no. Anche se è un uomo ambizioso e che guarda lontano, neanche lui avrebbe pensato di arrivare ad approvare una serie come “The Crown”, quella sulla vita della Regina Elisabetta, con un budget di 150 milioni di dollari. Ma se tre anni fa Sarandos non aveva idea di dove sarebbe arrivato nel 2016, ora è in grado di anticipare che cosa accadrà tra tre anni? Non teme la concorrenza di Amazon? E delle reti che si stanno adattando alla nuova realtà e ai bisogni dei loro utenti?  Magari di un nuovo Netflix, che arriva in scena e sconvolge a sua volta il precario ordine attuale? Sarandos ci ha parlato di questi e altri scenari in un’intervista esclusiva concessa all’Espresso. 

La definiscono un rivoluzionario, un uomo che ha scardinato il sistema televisivo. Che cosa prova quando sente queste parole?
«Mi sento gratificato, orgoglioso. Perché abbiamo liberato i consumatori dalla dipendenza da orari fissi e inflessibili. Una bella parte del successo della televisione degli ultimi anni viene proprio dai cambiamenti nelle piattaforme di distribuzione: il consumatore può identificare lo show che vuole e goderselo dove, come e quando vuole lui».

Senza negare niente alle vostre strategie, anche voi siete rimasti sorpresi dalla vostra impetuosa crescita e dal vostro successo. Come intendete mantenere la leadership?
«Non dando mai niente per scontato, non presumendo mai che se uno show ha funzionato un anno andrà bene necessariamente anche quello dopo. Stiamo producendo contenuti originali in dodici Paesi diversi. Lanceremo dei talk show, dei reality. Sono cose che non abbiamo mai fatto e hanno in comune l’obiettivo - quello non cambia- di dare ai telespettatori la miglior programmazione possibile, qualunque sia il suo genere o la lingua. È vero, cinque anni fa non avrei mai pensato che saremmo arrivati a produrre cose come la saga hip hop di Baz Luhrmann “The Get Down”. O “Stranger Things”. O che “Time” sarebbe arrivato ad attribuirci dieci dei migliori episodi tra quelli delle serie televisive del 2016, da una lista che ne contiene quattromila. Hanno incluso nei top 10 episodi da “BoJack Horseman”, “Black Mirror” e “Orange is the New Black”. E non puoi arrivare a un risultato come questo giocando a conservare le posizioni. Devi costantemente correre dei rischi».

Una volta, non molto tempo fa, il successo nel pianeta televisione lo si misurava con gli indici di ascolto, che voi non dichiarate. Perché?
«Non ignoriamo gli indici. Studiamo costantemente le abitudini dei nostri abbonati, che cosa li attrae e che cosa no. E usiamo i soldi che ci arrivano con i loro abbonamenti per dar loro in cambio ore di gioia. Se uno show non va bene, Netflix ha meno da offrire. Vogliamo dunque fare show che sono successi di critica e che la gente ama e per farlo usiamo strumenti di misurazione tradizionali. Ma i nostri show non sono condannati ad affermarsi nel giro di due o tre settimane e questa è la ragione per cui non vogliamo rendere noti i risultati. Perché se ti dico che uno show ha 30 milioni di spettatori e un altro ne ha due, secondo gli standard tradizionali quello che ne fa due è un fallimento. E invece quei due milioni potrebbero essere tutti fan ultra-appassionati, più facili da conservare e magari da moltiplicare che gli altri trenta».

C’è chi dice che in tv c’è già saturazione, troppe reti e costi ormai sproporzionati.
«I compensi che paghiamo agli artisti e i budget delle nostre serie non sono fuori controllo. Sono anzi certo che arriverà il giorno in cui qualcuno dirà che “The Crown” alla fine è stato un affarone. Come nello sport, ci sono giocatori che valgono più di altri ma noi giochiamo su una scala globale, abbiamo 87 milioni di abbonati in 130 Paesi. E alla fine la lezione è che se hai delle buone storie saranno accolte bene ovunque. Show come “The Crown” e “Black Mirror” sono dei successi in tutto il mondo. Anche se pensavamo che fosse molto americano, “The Gilmore Girls” sta andando benissimo e uno dei Paesi che più ci ha sorpreso è proprio l’Italia».

Dove dopo “Suburra” in coproduzione con la Rai, Netflix ha comprato da Mediaset la mini-serie “Chiamami Francesco”, sulla vita di papa Jorge Mario Bergoglio.
«Le cose in Italia stanno andando molto bene. C’è molto appetito per lavori che non hanno trovato la giusta distribuzione e in arrivo dal mondo intero. Un problema che abbiamo da voi è l’infrastruttura di Internet. Le aspettative sulla velocità della rete sono più basse che altri in Paesi, ma continuiamo ad allargare e a migliorare il nostro catalogo. E dopo “Suburra”, che sarà un prodotto molto forte e che avrà certamente un seguito al di fuori dell’Italia, intendiamo fare altra programmazione originale. Abbiamo molti progetti in Italia. Alcuni film, e lo speciale di un comico molto famoso anche a livello internazionale. Ma non sono ancora pronto a parlarne ufficialmente»”.

Un comico che si chiama Roberto?
«No».

Com’è la divisione tra Usa e resto del mondo?
«Siamo a circa 55 a 45 per cento, ma sappiamo che il più vasto potenziale di crescita viene ovviamente dai mercati esteri».

Però in Cina non siete ancora presenti.
«Il clima per le società americane di media non è dei più favorevoli e a breve termine la possibilità di un lancio indipendente sono alquanto ridotte. Ma abbiamo altri mercati in grande espansione in Asia. Penso soprattutto all’India. E alla Corea».

Pur senza distribuire gli indici di ascolto, avete accesso a una riserva illimitata di dati sulle abitudini e i gusti dei vostri abbonati. Quanto influiscono nel determinare le vostre scelte creative?
«I dati ci forniscono informazioni su ciò che la gente ama e sulle tendenze, ma alla fine devi usare l’istinto. La proporzione tra scienza e arte in queste decisioni? Direi che il 70 per cento di quello che facciamo è scienza, il 30 per cento è arte. Abbiamo 2.500 impiegati in Silicon Valley, 800 circa a Los Angeles e un centinaio in giro per il mondo. Ma questo non significa che la scienza vince. I nostri algoritmi si fondano sulle emozioni e sui gusti dei nostri abbonati, nei vari Paesi. E il lavoro della Silicon Valley è al servizio dell’arte, perché lo usiamo per poi scommettere sugli story-tellers più interessanti, per dar loro i cast  che possono portare a compimento la loro visione e per creare mondi dentro i quali la gente vuole passare del tempo».

Sarandos, chi è la sua concorrenza? Amazon? Le vecchie reti che si stanno adattando ai nuovi tempi? Gli studios di Hollywood?
«Siamo in competizione con interessi molto diversi ma il nostro concorrente più grande è il tempo che la gente passa a leggere, a fare la siesta, a giocare a videogames. Il concorrente che mi preoccupa davvero non è ancora emerso, non lo abbiamo ancora visto. La nostra preoccupazione più temibile sono tuttavia i cambiamenti nelle abitudini dei consumatori. Molti quest’anno hanno passato un bel po’ di tempo a giocare a Pokemon Go. Tempo che avrebbero potuto spendere a vedere la tv».

Davanti a spettacoli Netflix, ovviamente...
«Noi cerchiamo sempre di guardare avanti, sperando in questo modo di non venire sorpresi alle spalle. Cerchiamo continuamente di anticipare nuovi trend, per non doverli rincorrere quando potrebbe essere troppo tardi».