Scusa, ma perché mai avete fatto un documentario sui cargo? È la domanda che tutti fanno a Sarah Robertson e Bernice Notenboom la prima volta che sentono parlare del loro film “Seablind”. È successo a Parigi, quandolo hanno presentato durante la Conferenza internazionale sul clima, a Tromsø, quando lo hanno fatto vedere agli esperti riuniti in Norvegia per l’incontro annuale di Arctic Frontiers, poi alla prima ufficiale di Rotterdam, il più grande porto d’Europa. Sono abituate a questa domanda, come alla reazione di chi sente la loro risposta o meglio ancora vede il film: «Se la situazione è così grave, come mai nessuno ne parla?».
Perché siamo tutti “Seablind”, incapaci di vedere cosa succede sul mare. Si intitola così il primo film realizzato insieme da Robertson e Notenboom, che lo firmano con un’altra documentarista pluripremiata, Jennifer Abbott. Sarah Robertson, canadese, è dietro la cinepresa e dietro la produzione di “Seablind”, che ha realizzato con la sua casa produttrice di film in temi artici (si chiama Polar Bear). Bernice Notenboom invece ci ha messo la faccia: lei - giornalista olandese specializzata in cambiamenti climatici e “professional adventurer” - è il filo conduttore del documentario. Con la sua avventura fallita: quaranta giorni dal Polo Nord al Canada in sci su un percorso reso ormai impraticabile dai cambiamenti climatici.
Una persona davvero singolare: ha scalato l’Everest, e ha raccontato l’impresa in un documentario (“Himalaya Alert”) premiato come miglio film a tema ecologico al Trento Film Festival del 2010, ma non disdegna i reality show tipo “Isola dei famosi”. All’anteprima norvegese di “Seablind”, Bernice sfoggiava un dito incerottato, per un incidente nelle fasi di addestramento dei candidati al nuovo format olandese di “maschi contro femmine” in lavorazione in questi giorni in Nicaragua.
In genere i “professionisti dell’avventura” affrontano le loro imprese per essere i primi a fare qualcosa. Bernice no: «Non ho tentato la traversata dal Polo Nord al Canada per essere la prima, ma perché potevo essere l’ultima a poterlo fare», racconta nel documentario. Non c’è riuscita: l’impresa è stata annullata per una bufera imprevista, «perché il clima dell’Artico non è più quello di un tempo».
cambiamenti climatici, con l’aumento della temperatura e di quantità e violenza di tempeste e tifoni, si fanno sentire fin quassù. A cambiare il clima è l’inquinamento, a causare l’inquinamento in gran parte sono le navi da carico. Le cui colpe sono particolarmente evidenti sui ghiacci dell’Artico. Ecco com’è nata l’idea del documentario, per mettere a fuoco quei misconosciuti killer ecologici che sono le navi da carico.
I cargo sono la spina dorsale dell’economia globalizzata: si calcola che il 90 per cento di tutte le merci in vendita nel mondo abbia alle spalle un trasporto via mare. Nel 2013 una giornalista inglese, Rose George, ha intitolato “Ninety percent of everything” un suo saggio sulle navi da carico. Che crescono in numero, in stazza e quindi in pericolosità per l’ambiente. Secondo “Seablind” sono oltre centomila, e le loro rotte si intrecciano intorno ai continenti e si concentrano negli stretti, tracciando un disegno che è una delle immagini più forti del documentario.
La loro importanza è aumentata sempre di più grazie all’uso dei container: «Prima per caricare merci diverse una accanto all’altra ci voleva una settimana, ora bastano poche ore e una gru per mettere le scatole una sull’altra», spiega Bernice Notenboom. A volte i container cadono in mare durante una tempeste, e il carico va perduto: succede così che una spiaggia olandese si ricopra di scarpe da tennis made in China...
I cargo sono sempre più grandi - arrivano a 400 metri di lunghezza - e consumano sempre di più. Ma a renderli ancora più inquinanti contribuisce il tipo di combustibile che bruciano. Si chiama “bunker fuel”, ha la viscosità e il colore dell’olio da macchina usato e nella combustione produce una grande quantità di polveri sottili. Secondo le curatrici del documentario, «bastano 17 cargo per emettere più polveri di zolfo di tutte le macchine circolanti nel mondo».
Dati terribili che però normalmente fanno poco effetto. Perché il mare è grande, e ancora più grande è l’aria che gli sta sopra. Per rendersi conto del problema bisogna venirci a contatto. E infatti i primi a correre ai ripari sono le città di mare. L’autorità portuale di Rotterdam si impegna da anni per forzare le navi da carico a bruciare gas liquido o altri combustibili a basso contenuto di zolfo.
L’allarme sull’inquinamento provocato dalle navi nelle città di mare è arrivato anche a Napoli e Genova durante la crisi di smog dello scorso dicembre: le navi sono state obbligate a passare a combustibile a basso contenuto di zolfo ben prima di entrare nei porti, e a non tenere accesi i motori una volta ormeggiate.
Ma usare combustibili “puliti” nei porti non basta. Per rendersi conto di quanto sporcano i cargo bisogna toccarlo con mano, e uno dei posti dove è più evidente è l’Artico. Sarah Robertson si occupa di questa regione da sempre e ha visto mille volte le immagini che mostra nel film: l’acqua sciolta che scorre a cascate all’interno del ghiaccio, i bordi della banchisa, che un tempo erano di un bianco immacolato e compatto, e invece oggi sono interrotti da strisce nere, per colpa della fuliggine portata dal vento: «Ho raccolto campioni di neve nei posti più lontani dal mare e dalle rotte commerciali, e non ne ho trovato nemmeno uno che non portasse tracce di inquinamento», racconta Bernice Notenboom.
Non è solo un problema di sporcizia. A fare dei cargo il nemico numero uno dei ghiacci artici sono altri due fattori. Le polveri nere portate dal vento non si limitano a sporcare il ghiaccio ma riflettono la luce del sole e amplificano il calore, accelerando lo scioglimento. Man mano che il ghiaccio artico si scioglie, poi, per le navi diventa più facile passare da nord, facendo rotte molto più economiche.
Andare da Rotterdam a Shanghai passando a nord della Russia significa risparmiare dieci giorni di viaggio. Per aprirsi il passaggio, però, le navi rompono il ghiaccio - e il ghiaccio a pezzi si scioglie ancora più in fretta. Per secoli il “passaggio a nord-ovest”, che unisce le due coste degli Stati Uniti passando dal Canada, è stato il sogno degli esploratori - alla fine lo aprì nel 1906 il norvegese Roald Amundsen.
Oggi invece il “passaggio a nord-Est” è l’incubo degli ambientalisti. Che accolgono con orrore notizie come quella del primo carico di merluzzo spedito attraverso l’Artico dalla Tobø Fisk di Havøysund, a due passi da Capo Nord, fino al Giappone.
“Seablind” però si chiude su una nota di speranza. E di invito all’impegno per combattere una situazione che potrebbe essere affrontata facilmente. «Uno dei motivi che ci ha spinto a fare subito questo film è che ci vorrebbe poco a migliorare la situazione», racconta Sarah Robertson. Per rendere le navi meno inquinanti basta usare carburanti a basso contenuto di zolfo (che però costano anche il 50 per cento di più del terribile “bunker fuel”) o il gas liquido (LNG).
Per non parlare dei progetti avveniristici di navi a elettricità (ma dove e come verrebbe prodotta l’elettricità necessaria?), a energia nucleare o persino a vela. Un lieto fine? Non proprio. Perché far rispettare le leggi richiederebbe navi registrate in stati “reali” - non la Mongolia, che il mare non sa cosa sia, o la Liberia, che ha continuato a vendere licenze agli armatori in cerca di bandiere compiacenti anche nel pieno della guerra civile. La strada è lunga, e la banchisa si scioglie in fretta come i ghiaccioli in un bicchiere di whisky on the rocks.