Che Guido Bertolaso avesse quel talento si poteva intuire ben prima della sua attuale candidatura a sindaco di Roma fortissimamente voluta da Silvio Berlusconi. Ne aveva già data prova anche quando era saldo lassù nell’empireo, intoccabile come il più potente degli dei e da sottosegretario alla Presidenza e da capo della Protezione Civile poteva chiedere l’impossibile e Palazzo Chigi eseguiva.
Nel 2010 vola a Haiti dopo il terremoto e si lascia andare a commenti più acidi di uno yogurt sugli interventi di soccorso degli americani. Pietre miliari di diplomazia e rapporti bilaterali. Naturalmente si scatena l’inferno. Il Segretario di Stato Hillary Clinton liquida le geniali frasi (da lui poi chiarite) come tipiche osservazioni da dopo partita mentre il presidente Berlusconi si cosparge il capo con quintali di polvere. Passa qualche mese e Bertolaso attinge di nuovo al suo fecondo talento.
E nella conferenza stampa a Palazzo Chigi organizzata per chiarire la sua posizione nell’inchiesta sugli appalti per il G8 (processo ancora aperto) racconta dello sforzo sovrumano fatto per non segnalare a Bill Clinton il simpatico e comune problema di nome Monica. La Monica di Bertolaso era una massaggiatrice brasiliana del Salaria Sport Village finita in una intercettazione. Quella dello studio ovale, la più nota Levinsky. Il tatto di un Dumbo. Uno di quei casi in cui invocare la Protezione civile. Per arginare Bertolaso, però.
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Nell’agitato palcoscenico di un centro-destra romano fantomatico, metafisico, in piena decomposizione, dove tutti sono contro tutti, e dove Matteo Salvini capeggia la guerriglia, minaccia primarie e monta e smonta gazebi disturbatori, il candidato, 66 anni, il pullover blu indossato come un monumento, ci mette del suo e non smentisce la fama. Ogni volta che dichiara, commenta, lascia andare libero il pensiero, il risultato è pari a una calamità naturale, la sua specialità del resto. Il diluvio, di critiche, è assicurato.
I fulmini e le saette pure. Prescelto da Berlusconi dopo un tira e molla dovuto anche a serie ragioni familiari, con il beneplacito, all’inizio, della Lega e dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Bertolaso, medico e specialista in malattie tropicali, svernato in Africa a curare sul serio i bambini malati dopo le dimissioni dalle alte cariche e il coinvolgimento in vari procedimenti giudiziari, ha inaugurato un nuovo tipo di propaganda elettorale: la comunicazione autolesionista.
Durante il programma “Di martedì” Enrico Mentana cerca un endorsement, chi voterebbe tra Storace, Marchini o Giachetti? Bertolaso non si sottrae e giù, si butta verso il burrone. Sceglie Giachetti naturalmente, uno dei candidati Pd, uno contro il quale dovrebbe battersi e dire peste e corna. Peccato che, non pago, si metta anche a cantarne le lodi. Mica solo in trasmissione. Ma no, non perde occasione di valorizzarlo in tutte le interviste «Gli voglio bene, è una persona perbene». È proprio un portento. E non sbaglia mai la risposta sbagliata. Sarà per il vecchio vizio della Protezione civile, sarà l’attrazione fatale verso il pericolo, ma in politica si tratta di un vero suicidio. I rom, gli chiedono. E lui si lancia in un’articolata disamina sull’integrazione. Concetto finale: gli zingari, poveri cari, vanno aiutati. Nell’era della comunicazione fatta di slogan, tweet e non di ragionamenti, è un disastro. Per una destra che predica espulsioni e scarpe chiodate, è un’esplosione nucleare. Per Salvini, tipo già cinetico di suo, un detonatore d’ira funesta.
Ma il nuovo modello di campagna di stampo masochista, così sofisticata da essere incomprensibile a semplici menti umane, va avanti. L’ex capo della Protezione civile non risparmia neppure il suo mentore, il suo padrino, il suo leader. Quando capita, infatti, tiene a precisare che non gli è mai passato per la mente di votare l’ex Cavaliere. Macché, non è mica matto. Così il centralino di Arcore s’intasa, e l’ex premier e l’alter ego Gianni Letta, da sempre grande sponsor del candidato, sono a un passo dal chiedere urgentemente le famose pezze fredde. Succede così che qualche settimana fa Salvini prenda pubblicamente le distanze e anche l’agendina per chiamare l’ex pulzella Irene Pivetti e chiederle di candidarsi.
Simbolo per un decennio dell’interventismo compassionevole e risolutivo, commissario della Provvidenza chiamato a tenere a bada le grandi emergenze naturali o politiche, Bertolaso, secondo alcuni, è un organizzatore formidabile ma, fanno notare altri, lo è stato anche grazie a risorse e poteri infiniti. È passato indenne e rafforzato dal Giubileo del 2000 e dalla gestione quasi militare, lui figlio di un generale, del funerale di papa Wojtyla in una Roma invasa dai fedeli affranti. Nominato da Prodi (alla Protezione civile e poi all’emergenza rifiuti in Campania) confermato da Berlusconi per una serie infinita di missioni nevralgiche, dai vulcani delle Eolie al rischio bionucleare, in un sondaggio dell’epoca batte in popolarità Benedetto XVI.
Fino al 2010 l’ascesa sembra non doversi fermare mai, gli viene affidato anche il dopo terremoto in Abruzzo. Sono compiti che scottano, le emergenze sono sempre situazioni border line e il potere quando diventa spettacolare fa correre il rischio di inciampare. Così quando arriva l’inchiesta sugli appalti del G8, le accuse e le polemiche sulla gestione a L’Aquila, le rivelazioni su case e benefit della cosiddetta “Cricca”, Bertolaso lascia, si ritira e va in pensione. Ma l’Abruzzo è ancora un tema che qualunque spin doctor consiglierebbe di non sfiorare. E invece cosa fa il candidato kamikaze? In un’intervista definisce Roma una capitale «terremotata». I cittadini aquilani non perdono tempo per rispondergli per le rime: «Non ti vergogni? » Lui fa spallucce, sono solo l’uno per cento degli abitanti, commenta.
Intanto nella sua riserva di consenso monta lo sconcerto e l’irritazione: che sia un infiltrato della sinistra, è la domanda? Bertolaso non getta acqua sul fuoco e nemmeno coperte come avrebbe fatto alla Protezione civile. Diserta l’iniziativa di Salvini di sondare il gradimento dei romani verso i candidati del centro destra (Alfio Marchini guadagna il primo posto, Bertolaso il penultimo). Fa orecchie da mercante alla richiesta di primarie. Com’è possibile che uno come lui, avvezzo a stare in prima linea faccia tali passi falsi? È un uomo di valore ma senza l’ipocrisia del politico di professione, lo giustificano i fans. Aggiungono che è privo di cordone sanitario: il carisma di Berlusconi è trasformato in un vano ricordo della Repubblica che fu e Forza Italia è il partito che non c’è più. Anche il suo staff sembra aver perso la trebisonda. Racconta un testimone che qualche giorno fa un comunicato stampa partorito nel suo quartier generale veniva stoppato per miracolo da uno dei suoi collaboratori. Nella nota Bertolaso era indicato come il candidato del centro-sinistra. Come dire? No comment.
Nonostante gaffes e sondaggi al momento sconsolanti, Berlusconi non vuole altri che lui. E questo ora sembra calmare i bollenti spiriti leghisti. Per l’ex premier è un modo per ribadire la sua autorità. Costi quel che costi, anche una probabile sconfitta dal significato inequivocabile: Roma è la cartina di tornasole del futuro del centro-destra. Dal candidato, però, zero rassicurazioni. Il 23 febbraio Bertolaso dichiara alle agenzie: «A volte mi sembra di essere su “Scherzi a parte”». Non sembra solo a lui.