Attualità
18 aprile, 2016Una direttiva europea prevede di indennizzare i cittadini comunitari che subiscono reati violenti, indipendentemente dallo Stato in cui si verificano. Ma da noi questo discorso vale solo per alcuni casi, come il terrorismo, la mafia o l'usura. Ora il tribunale Ue potrebbe sanzionare il nostro Paese per discriminazione
"Non tutela le vittime di violenza sessuale, condannare l'Italia"
Perché una vittima di mafia o usura ha diritto di essere indennizzata e chi subisce uno stupro no? Una disparità di trattamento che rischia di costare cara all'Italia: la condanna della Corte di giustizia europea, con l'accusa di discriminazione.
Dal 2004, infatti, una direttiva di Bruxelles impone agli Stati membri di prevedere un risarcimento per i cittadini comunitari oggetto di reati intenzionali e violenti che non riescono a ottenerlo dall’autore, indipendentemente da dove si verificano. Tradotto: se hanno diritto alla libera circolazione nello spazio comune europeo, gli abitanti della Ue devono poter contare su leggi che li proteggano allo stesso modo ovunque si trovino.
Solo che da noi non è così che funziona, ha lamentato la Commissione europea, che da cinque anni spinge Roma ad adeguarsi. In base alla legge italiana attualmente può essere risarcito chi rimane coinvolto in atti di terrorismo politico (dal 1980) o internazionale (dal 2004), chi è vittima di reati legati alla mafia (dal 1990), estorsione (1992), usura (1996), tratta di esseri (2003) o attentati all'estero (2004). Non, però, chi subisce una violenza sessuale. Così, a partire dal 2011, Bruxelles ha chiesto di sanare la mancanza, ravvisando una discriminazione.
Senza successo, però: Palazzo Chigi, ai tempi del governo Monti, presentò un progetto di legge che istituiva un fondo di solidarietà per tutti i reati che avessero provocato la morte o lesioni personali gravi. Poi la fine anticipata della legislatura ha rimesso in discussione tutto e quando ha promesso all'Europa che ci avrebbe pensato il nuovo esecutivo, Roma non ha presentato nemmeno una tempistica.
Troppo, a detta della Commissione, che ha deciso così di fare "causa" all'Italia. Che da parte sua si è difesa in giudizio con un'argomentazione quanto meno discutibile: la direttiva europea lascia margini di discrezionalità nella determinazione dei reati intenzionali violenti che devono essere oggetto di indennizzo. E l'abuso sessuale, è la conseguenza, ha tutto il diritto di non rientrarvi.
Un ragionamento che non ha convinto l'avvocato generale del tribunale Ue che si occupa del caso, il francese Yves Bot, che nelle sue conclusioni ha chiesto di condannare il nostro Paese. Resta da vedere se anche i giudici del Lussemburgo saranno dello stesso avviso.
Anche perché questa vicenda è iniziata proprio con uno stupro: quello subito da una signora di Firenze, alla quale il tribunale aveva riconosciuto 20 mila euro a titolo provvisionale da parte del suo aggressore, un pregiudicato nullatenente, senza impiego né dimora e già detenuto al momento della condanna. Per la donna, una volta uscito dal carcere, il suo aggressore non sarebbe stato in grado di pagare e sarebbe stato espulso in quanto irregolare.
Così nel 2012 aveva deciso di fare causa alla Presidenza del Consiglio davanti alla Corte di giustizia europea per la mancata attuazione della direttiva comunitaria, che non garantiva - a lei come a tutte le altre vittime di abusi sessuali - un indennizzo equo e appropriato in base alle lesioni e allo shock subito. Solo che il giudice, pur riconoscendo "non manifestamente infondata" la questione della "diseguale della tutela risarcitoria", aveva rigettato la richiesta, perché la direttiva riguardava solo gli stranieri comunitari.
Del resto anche i tribunali in questi anni si sono pronunciati in maniera non univoca: a Torino nel 2010 a una donna romena è stato riconosciuto il diritto all'indennizzo dallo Stato (proprio perché non italiana), mentre a una signora di Trieste nel 2013 è stato negato come accaduto a Firenze. Adesso sarà il tribunale del Lussemburgo a mettere la parola fine alla vicenda: almeno per quanto riguarda i cittadini dell'Unione europea.
Dal 2004, infatti, una direttiva di Bruxelles impone agli Stati membri di prevedere un risarcimento per i cittadini comunitari oggetto di reati intenzionali e violenti che non riescono a ottenerlo dall’autore, indipendentemente da dove si verificano. Tradotto: se hanno diritto alla libera circolazione nello spazio comune europeo, gli abitanti della Ue devono poter contare su leggi che li proteggano allo stesso modo ovunque si trovino.
Solo che da noi non è così che funziona, ha lamentato la Commissione europea, che da cinque anni spinge Roma ad adeguarsi. In base alla legge italiana attualmente può essere risarcito chi rimane coinvolto in atti di terrorismo politico (dal 1980) o internazionale (dal 2004), chi è vittima di reati legati alla mafia (dal 1990), estorsione (1992), usura (1996), tratta di esseri (2003) o attentati all'estero (2004). Non, però, chi subisce una violenza sessuale. Così, a partire dal 2011, Bruxelles ha chiesto di sanare la mancanza, ravvisando una discriminazione.
Senza successo, però: Palazzo Chigi, ai tempi del governo Monti, presentò un progetto di legge che istituiva un fondo di solidarietà per tutti i reati che avessero provocato la morte o lesioni personali gravi. Poi la fine anticipata della legislatura ha rimesso in discussione tutto e quando ha promesso all'Europa che ci avrebbe pensato il nuovo esecutivo, Roma non ha presentato nemmeno una tempistica.
Troppo, a detta della Commissione, che ha deciso così di fare "causa" all'Italia. Che da parte sua si è difesa in giudizio con un'argomentazione quanto meno discutibile: la direttiva europea lascia margini di discrezionalità nella determinazione dei reati intenzionali violenti che devono essere oggetto di indennizzo. E l'abuso sessuale, è la conseguenza, ha tutto il diritto di non rientrarvi.
Un ragionamento che non ha convinto l'avvocato generale del tribunale Ue che si occupa del caso, il francese Yves Bot, che nelle sue conclusioni ha chiesto di condannare il nostro Paese. Resta da vedere se anche i giudici del Lussemburgo saranno dello stesso avviso.
Anche perché questa vicenda è iniziata proprio con uno stupro: quello subito da una signora di Firenze, alla quale il tribunale aveva riconosciuto 20 mila euro a titolo provvisionale da parte del suo aggressore, un pregiudicato nullatenente, senza impiego né dimora e già detenuto al momento della condanna. Per la donna, una volta uscito dal carcere, il suo aggressore non sarebbe stato in grado di pagare e sarebbe stato espulso in quanto irregolare.
Così nel 2012 aveva deciso di fare causa alla Presidenza del Consiglio davanti alla Corte di giustizia europea per la mancata attuazione della direttiva comunitaria, che non garantiva - a lei come a tutte le altre vittime di abusi sessuali - un indennizzo equo e appropriato in base alle lesioni e allo shock subito. Solo che il giudice, pur riconoscendo "non manifestamente infondata" la questione della "diseguale della tutela risarcitoria", aveva rigettato la richiesta, perché la direttiva riguardava solo gli stranieri comunitari.
Del resto anche i tribunali in questi anni si sono pronunciati in maniera non univoca: a Torino nel 2010 a una donna romena è stato riconosciuto il diritto all'indennizzo dallo Stato (proprio perché non italiana), mentre a una signora di Trieste nel 2013 è stato negato come accaduto a Firenze. Adesso sarà il tribunale del Lussemburgo a mettere la parola fine alla vicenda: almeno per quanto riguarda i cittadini dell'Unione europea.
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