C'è una carta a sorpresa nel braccio di ferro per preservare la laicità della Deputazione di San Gennaro, l'organo di governo della Cappella del Tesoro del santo, presieduto dal sindaco di Napoli e composto dai discendenti della nobiltà partenopea. Uno scontro che vede opposti il Viminale e l'arcivescovo Sepe, da un lato, e dall'altro un inedito fronte che va dagli eredi di famiglie blasonate al primo cittadino de Magistris, passando per i ragazzi dei centri sociali. Un risiko sul cui sfondo c'è l'eterna guerra di posizione tra Stato e Chiesa.
Ad un atto notarile del 1527 sono affidate le speranze di stoppare un decreto del Ministero degli Interni, Angelino Alfano, che impone l'ingresso di 4 rappresentanti del vescovo tra i 12 membri della Deputazione. Il decreto equipara la Deputazione alle fabbricerie, organismi dove siedono laici ed ecclesiastici per provvedere alla manutenzione delle chiese.
L'atto notarile, che l'Espresso è in grado di mostrare, sancì la nascita della Deputazione ed è ora depositato al Tar Campania, dove pende un ricorso. La posta in palio è alta. Alla Deputazione spetta la custodia del tesoro di San Gennaro, valutato intorno ai 50 miliardi di euro, oltre a quella della cappella del patrono. E il provvedimento di Alfano ha l'aria di strizzare l'occhio all'universo teocon di casa nostra. "Il documento di 5 secoli fa è un atto fondativo - afferma Riccardo Imperiali di Francavilla, legale che cura il ricorso e componente della Deputazione - la cappella nasce in quel momento e comporta che il governo sia della città di Napoli con la specifica di escludere altre autorità al riguardo".
La reale cappella del tesoro di San Gennaro, sede delle ampolle col sangue del santo, segna la frontiera tra i due mondi. Si trova nel duomo di Napoli ma non appartiene alla Curia, bensì alla città tramite la Deputazione. "Il ministero ha fatto un papocchio giuridico - dice Imperiali di Francavilla – equiparandoci alle fabbricerie disciplinate secondo uno schema di 7 membri - non 12 come noi - di cui 5 nominati dal prefetto sentito il vescovo e 2 proprio dal vescovo. E' giusto in quel caso perché sono beni della Chiesa, nel nostro invece non è così: siamo un bene cittadino, sostenuto da fondi comunali e la Curia c'entra solo per quanto previsto da diritto canonico, cioè la celebrazione delle messe”.
Insomma, la Deputazione rivendica la sua natura autonoma, anche davanti alla legge. E una bolla papale di Pio XI nel 1927 riconosce il diritto di patronato della città di Napoli sulla cappella che "non proviene da un privilegio Apostolico ma da una fondazione e dotazione laicale sorta con i beni patrimoniali e di esclusiva provenienza laicale".
Nonostante le frequenti mire dei porporati, identica scelta operarono Paolo V, Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VI. Ma laddove non avevano osato cinque pontefici, osa Angelino Alfano. Dalle stanze diocesane sottolineano che i loro 4 esponenti sono confinati al ruolo di minoranza. “E' una questione di principio – insorge l'avvocato – non andrebbe bene neanche mezzo rappresentante ecclesiastico, perché la Deputazione non appartiene alla Curia, che in 500 anni non ha mai versato un soldo”.
Ora il fronte laico prova a ribaltare il colpo di mano del ministero, puntando sull'antichissimo documento. “L'atto costituisce un'entità giuridica 'sui iuris' una sorta di Fondazione della Cappella per il Tesoro, con la previsione dei suoi organi amministrativi nei rappresentanti dei seggi dei nobili e del popolo - spiega il notaio Dino Falconio, studioso di storia patria che affianca la Deputazione nelle ricerche - tutto ciò genera una conclusione importantissima sulla laicità dell'istituzione, sottratta per clausola statutaria alla ingerenza vescovile, e quindi autonoma e indipendente”. Ma al Viminale non vogliono sentirci da quest'orecchio.