
L’ultima volta, nel 2013, non c’erano state difficoltà. Maroni, fresco di vittoria alle urne, aveva scelto un imprenditore che si era schierato per lui, Benito Benedini, in buoni rapporti con alcuni consiglieri di Pisapia. Il sindaco non aveva avuto nulla da obiettare. Da allora, però, sono cambiati diversi fatti, che rendono la partita più complicata. Il primo è che Pisapia è a fine mandato e, con la nomina del presidente della Fondazione Fiera (se verrà confermato il patto di decidere prima che a Palazzo Marino s’insedi il nuovo inquilino), lascerà un’impronta sul futuro di Milano che andrà oltre la sua diretta amministrazione. Il secondo è che la gestione dell’istituzione da parte di Benedini è stata talmente contrassegnata da polemiche e problemi che la sua conferma, anche tra i fedelissimi del governatore leghista, non è data per certa. Molti sono convinti che l’imprenditore, a dispetto degli 82 anni, resti in pole position e che alla fine rimarrà sulla poltrona. Intanto, però, circolano ipotesi alternative, da Alberto Meomartini, ex presidente di Assolombarda, a Maurizio Lupi, uno dei terminali politici milanesi di Comunione e liberazione.
Una delle questioni che hanno più segnato la Fondazione è stata, negli ultimi mesi, la bagarre per il nuovo stadio del Milan. L’ente guidato da Benedini, proprietario dei padiglioni del nuovo polo fieristico costruito alle porte di Milano, a Rho, ha mantenuto in città un’area di grande valore strategico, conosciuta come Portello, in parte occupata da un centro congressi, in parte destinata a essere riconvertita. Nell’ultima fase della gara per aggiudicarsi l’area, lo scorso luglio, erano rimasti in due: un piccolo costruttore lombardo, il gruppo Vitali, e un peso massimo come il Milan di Silvio Berlusconi. Le cronache raccontano che in una notte di rilanci la società rossonera si era spinta a offrire 4,05 milioni di euro l’anno per affittare l’area per un periodo di mezzo secolo, superiore di un soffio (50 mila euro l’anno, stando alle voci) alla proposta avanzata da Vitali. I due contendenti, dunque, avevano messo sul piatto 200 milioni, che sarebbero entrati a rate, anno dopo anno, nelle casse della Fondazione.
Berlusconi ha però fatto subito marcia indietro, adducendo diverse motivazioni. Vitali si è così ritrovato come unica controparte della Fondazione, e lo scorso 16 febbraio ha strappato un contratto con un affitto più vantaggioso: 1,5 milioni per i primi due anni, tre milioni per quelli successivi. Il totale fa 147 milioni, 53 in meno rispetto a quelli che avrebbe incassato la Fondazione se il finale dell’asta non fosse andato a rotoli. In Fondazione spiegano la differenza fra le due offerte di Vitali con il fatto che il costruttore, essendo stata assegnata la vittoria al Milan, avrebbe «perso una serie di opportunità di mercato che non si sono potute ripresentare». E sostengono che essendo il progetto «diverso per investimenti e redditività da quello del Milan, comporta un ritorno economico differente ma rispondente in pieno agli obiettivi di valorizzazione del patrimonio». Alla domanda su che risarcimento sarà chiesto alla società rossonera, la Fondazione risponde che «l’importo è riservato» ma che comprenderebbe «i danni derivati dalla perdita di opportunità nonché i costi sostenuti». Sulla vicenda il presidente del Consiglio comunale, Basilio Rizzo, noto tifoso milanista, ha chiesto che il municipio si costituisca parte civile: per lui, la partita tra Milan e Fondazione è stata «una colossale messa in scena».
Visto che i danni un conto è chiederli, un altro ottenerli, con il senno di poi ci si potrebbe domandare se la Fondazione avrebbe potuto attirare investitori più ricchi e più solidi, come i fondi arabi che stanno comprando mezza Italia, se avesse deciso non di dare in affitto a tempo i terreni, ma di venderli. Nel frattempo, Benedini - manager diventato imprenditore solo in epoca relativamente recente, rilevando le fortune di alcuni nomi grossi degli anni Ottanta, dalla chimica dei Varasi al trading di cereali e ai progetti immobiliari di Franco Ambrosio, l’ex re del grano a suo tempo legato a Paolo Cirino Pomicino - si è ritrovato al centro di un’altra, spinosissima polemica. Il 10 dicembre scorso, infatti, il gip milanese Natalia Imarisio ha deciso di archiviare l’inchiesta aperta dalla procura su un presunto episodio di corruzione. Nel 2014 una ditta fornitrice della Fiera, la Manutencoop, si era impegnata a retribuire con una consulenza da 500 mila euro una piccola società senza dipendenti, la House Tech. L’accordo era vincolato all’ottenimento, da parte della cooperativa, di un contratto da 4,6 milioni per la manutenzione del sito fieristico di Rho, messo in gara dalla Fiera di Milano spa, controllata al 62 per cento da Fondazione. Particolare decisivo: della House Tech è azionista Carlo Brigada, imprenditore «in rapporti d’affari e d’amicizia» con la famiglia Benedini. Il giudice Imarisio ha scritto che, in base alle indagini, non si può escludere che «nelle intenzioni degli artefici dell’operazione Benito Benedini ne dovesse essere beneficiario inconsapevole» se non, quanto meno in ipotesi, «contrario». Al di là di ogni rilevanza penale, sul piano politico è però interessante leggere i passaggi della sentenza: a dispetto di «plurimi e indiscutibili elementi di anomalia» del contratto, il giudice ha ritenuto che l’ipotesi di «corruzione tra privati» non potesse essere perseguibile perché mancava la denuncia di parte, che spettava a Manutencoop.
Se la vicenda è chiusa, va detto che le conseguenze si sono fatte sentire. A denunciare l’affaire House Tech era stato infatti l’ex amministratore delegato della Fiera di Milano spa, Enrico Pazzali. La scorsa primavera, quando il suo mandato era giunto a scadenza, la Fondazione ha deciso di mandare via lui e il presidente Michele Perini. Al suo posto ha nominato Corrado Peraboni, un ex politico che ha iniziato la carriera come consigliere comunale a Cassano d’Adda e che Benedini ha scelto in casa: era direttore generale della Fondazione stessa. Da allora, in Borsa, il titolo della Fiera ha perso il 70 per cento. Richiesta di un giudizio sul crollo, la Fondazione scarica le responsabilità sulla passata gestione: dice che le «crescenti perdite» dell’ultimo triennio avevano portato la Fiera a dover effettuare «pesanti svalutazioni delle partecipazioni, soprattutto estere». «Ci si è resi conto», spiega, «che Fiera Milano non rispettava gli obiettivi di bilancio, per cui la Fondazione si è vista costretta a cambiare il management e a condurre in porto un aumento di capitale». E sostiene che gli effetti positivi si sono già visti nel bilancio 2015, chiuso con un margine operativo lordo superiore di 12 milioni rispetto al budget. Si vedrà se queste spiegazioni basteranno per conservare il posto a Benedini in Fondazione. Nel frattempo tra i soci di Fiera spa un’istituzione molto potente a Milano come la Fondazione Cariplo di Giuseppe Guzzetti sembra non aver voluto scommettere sulle potenzialità rigenerative dell’aumento di capitale. E ha ridotto la partecipazione dal 3,83 per cento al di sotto del due.