Nel suo ultimo romanzo, un presidente della repubblica francese appena eletto viene ucciso da un giovane francese d'origine algerina. Il giovane romanziere Sabri Louatah spiega perché ha scritto 'Les Savauges'. E cosa racconta della Francia (e dell'Europa) di oggi

"I terroristi? Io li ho immaginati così"

«Credo che il mio sia un romanzo europeo. L’Europa sta vivendo con i migranti la più grande crisi della sua storia. Moltissimi sono morti, moltissimi continuano ad arrivare: assistiamo alla generosità tedesca e al conservatorismo francese. L’Europa è già morta una volta quando ha chiuso gli occhi sulla Shoah. ?Mi domando se non sia in procinto di morire una seconda chiudendo gli occhi su questa nuova tragedia prodotta da un demone che si chiama nazionalismo.

Un demone a due facce, come Giano bifronte: da una parte, appunto, il nazionalismo. Dall’altra il risentimento etnico, l’odio viscerale per l’Occidente, l’Europa, quindi il terrorismo islamico che in Francia ha le sue origini nella guerra d’Algeria, nel colonialismo, nel non sentirsi assolutamente francesi. Perché, altrimenti, dei francesi della mia generazione partono per la Siria? Quasi tutti sono nati in Francia come me: ma non tutti ragionano come me...».

A parlare è Sabri Louatah, 32 anni, nato appunto a Saint-Etienne ma di origini algerine, scrittore del momento in Francia. La sua opera prima in quattro atti, “Les Sauvages” (Flammarion), ha convinto tutti, critica e pubblico, al punto che diventerà una serie tv per Canal Plus (in Italia i libri saranno pubblicati da Mondadori).
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Louatah ci dà appuntamento al salone del tè della Moschea di Parigi. Trasmette energia nervosa e curiosa, adora la letteratura russa. Parla a mitraglietta e consuma mille sigarette. Ama l’Italia, parla un discreto italiano a volte con sorprendente accento toscano, visto che ha abitato in Toscana. Ha un debole anche per Genova, soprattutto per via dell’amore per Fabrizio De André.

Les Sauvages” comincia alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi: lo scontro è tra il candidato socialista algerino Idder Chaouch, una sorta di Obama francese, ?e Nicolas Sarkozy. In casa Nerrouche intanto è festa grande per il matrimonio di uno dei nipoti. Ma quando il giorno dopo il candidato Chaouch esce dal seggio elettorale, qualcuno gli spara. Entra in coma proprio quando viene proclamato presidente della Repubblica francese e il colpevole dell’attentato è identificato come uno dei membri della famiglia Nerrouche. A partire da questo momento, le vicende personali dei Nerrouche si identificano e si mescolano con quelle della Francia intera.

Sabri Louatah, come mai ha scelto ?di inventare questa storia?
«Volevo fare un romanzo che non fosse catalogato solo come “politico”, ma fosse una storia a più voci. Ho voluto al centro della storia il punto di vista ?di una famiglia algerina in Francia, a Saint-Etienne, che si trova coinvolta anche in vicende terroristiche: ci sono due fratelli, uno che rappresenta la luce, l’altro l’oscurità: i loro punti di vista sono senza speranza di riconciliazione e la famiglia si trova spaccata in due. Il senso del romanzo è proprio questo: non c’è speranza di riappacificazione, bisogna imparare a vivere anche con gente che
si detesta. La Francia in teoria è il Paese della “liberté, égalité, fraternité”: ma non è sempre vero e ci sono persone ?con cui io non fraternizzerei mai. Si deve imparare a convivere con persone con cui non si ha nessun rapporto. Ci sono due famiglie nel libro: i Nerrouche e la famiglia di tutte le famiglie, cioè la Francia. Volevo che, come in una serie tv, i personaggi si sviluppassero e che crescessero con me, che avevo 28 anni quando ho iniziato a scrivere».

Lei è stato vittima di episodi razzisti?
«Si, l’anno scorso nel sud della Francia. ?Mi hanno sputato addosso trattandomi ?da “sporco arabo”. A volte invece mi hanno dato dell’ebreo. A Firenze un signore anziano mi ha chiamato “marocchino”. Così più il razzismo aumenta, più la gente d’origine araba qui in Europa pensa: “Non mi sento europeo, non mi sento francese”. Ed è attirata dall’Islam. Non quello dei miei nonni, ma quello ormai politico, quello salafita.
Le mie zie si sono battute per fuggire dal velo e ora le loro figlie se lo mettono...Ad esempio, risulta da uno studio fatto in Francia che gli uomini di origine araba sono quattro volte più discriminati, quando cercano lavoro».

Per questo lei è andato a vivere in America?
«Mia moglie è americana, questo già spiega la scelta. E sto scrivendo il prossimo libro in inglese. Ma è vero che non mi sento a mio agio in Francia. Ho l’impressione che se fossi rimasto qui, sarei diventato come tanti, uno scrittore depresso. Quando le cose vanno male, bisogna cercare di dare colore. Non mi piace scavare ancora di più nelle ferite. È quello che dicevo prima: si vive nella nostalgia del periodo in cui la Francia era un grande Paese e Parigi la capitale del mondo. Non lo è più. I francesi si chiedono come mai e pensano che
la colpa sia degli arabi. O dei rom. Da una parte denunciano un nemico immaginario, dall’altra se la prendono con se stessi».

Come spiega il fatto che ragazzi che amavano la musica, il fumo, le ragazze di colpo si radicalizzano?
«Non succede “di colpo”. È una generazione che si è espressa per la prima volta in modo brutale nel 2005, quando ci fu la rivolta delle banlieue. In strada stava nascendo qualcosa di diverso. Il problema è che in Francia c’è un’ideologia molto particolare, quella della République, che sostiene che siamo tutti uguali. E così nel 2005 quei segni furono male interpretati: non è stato riconosciuto che c’era tutta una generazione bloccata nelle periferie che non partecipava. Ho dei cugini che vivono in periferia: non è l’inferno, ma è una vita senza avvenire. L’obiettivo massimo può essere un’assunzione nell’amministrazione pubblica: non certo eccitante. Poi certo c’è chi riesce, c’è chi fallisce. Ma questo malessere profondo non è stato colto. E così l’estrema destra ha cominciato a parlare di questi ragazzi come di “selvaggi”. Non è stato colto ?il grido d’allarme in modo giusto».

Lei invece lo percepiva questo malessere, che emerge nei suoi libri?
«Penso di si. Ma io non sono uno scrittore politico né un intellettuale: non sono impegnato politicamente. Volevo scrivere ?un romanzo ma avevo qualcosa dentro di questo disagio. E volevo raccontare cosa succede dentro una famiglia di terroristi. In genere in tv vediamo sempre l’immagine di una porta che si chiude davanti alle telecamere, perché quando si prova a intervistare la famiglia nessuno parla. Ma cosa succede dietro ?a quella porta chiusa? Chi resta ferito dagli avvenimenti come reagisce?».

Il libro “Sottomissione”’ di Michel Houellebecq, che racconta di un presidente della Repubblica musulmano, ha choccato e provocato polemiche. I suoi “Sauvages” invece no. Perché?
«Perché c’è una differenza tra satira e parodia. Io voglio giocare, raccontare una sorta di favola; Houellebecq vuole dare lezioni. La vera differenza è che i miei romanzi sono basati sulla speranza, i suoi sulla paura. Sono una sorta di specchio della depressione nazionale. Penso che i miei libri siano migliori dal punto di vista estetico per il modo in cui ?i personaggi esistono e restano impressi. Quando finisci il mio libro ti ricordi di Dounia, Nazir, Fouad... invece di Houellebecq ci si ricorda delle idee, non dei personaggi».

Come ha reagito la sua famiglia dopo l’uscita del primo libro?
«Nell’insieme bene, ma non tutti. Quelli che si sono riconosciuti in certi personaggi non troppo, ecco. Sa, io ho due fratelli e molti cugini. E ho attinto molto da questo microcosmo».

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