
Un’avanzata rapidissima, si disse che c’era stato un accordo con la mafia.
«Lo sbarco sarebbe avvenuto comunque, l’evoluzione della guerra spingeva in quella direzione, di certo in America grossi personaggi della mafia furono scarcerati. Fu una scelta politica. Chi poteva governare il consenso? La Chiesa, la mafia, gli agrari. Il capo della mafia Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba dal governo militare Usa. Il primo partito a risorgere fu la Dc, nello studio di Giuseppe Alessi a Caltanissetta: c’erano gli sturziani ex popolari come Salvatore Aldisio e Bernardo Mattarella. Il Pci provò a organizzarsi, ma non aveva una testa politica: Togliatti rispedì in Sicilia Girolamo Li Causi che tornò nell’isola dopo un viaggio pericoloso nel 1944. Il Pci siciliano si riunì a Messina, in una confusione pazzesca, io c’ero e me lo ricordo: quando proposero di mettere le bandiere del partito e il tricolore dell’Italia nella sala un vecchio compagno chiese ironicamente se volessero far sventolare anche la bandiera del Vaticano. La linea di divisione passava tra chi sosteneva la Sicilia separata e federata e chi la voleva unita all’Italia».
Vinse la via di mezzo, l’autonomia.
«Sì, ma non va dimenticato che il movimento separatista poteva contare sulla simpatia degli inglesi e su vecchi parlamentari, giovani studenti, una parte della piccola borghesia intellettuale diffusa soprattutto nei centri maggiori, Palermo, Catania, Messina. In più, c’era il ritorno del banditismo nelle campagne, non solo Giuliano, ma anche bande di sinistra che mettevano la falce e il martello nel moschetto. I rapporti di forza cambiarono quando il ministro comunista Fausto Gullo fece approvare i decreti sulle terre incolte. Iniziò una stagione di lotte, con 36 dirigenti sindacali uccisi. Intanto fu approvato lo Statuto. L’Assemblea regionale si chiamava Parlamento, i consiglieri deputati, c’era un’Alta corte della Sicilia che durò fino al 1960. Lo Statuto, infine, fu riconosciuto e entrò nella Costituzione italiana».

Portella della Ginestra, 1 maggio 1947, è considerata la prima strage della storia repubblicana.
«Fu preceduta dalle prime elezioni regionali del 20 aprile 1947 che erano andate bene per le sinistre riunite nel Blocco del popolo, dopo il pessimo risultato dell’anno precedente, il voto per la Costituente che aveva visto il trionfo della Dc e delle destre. La strage arrivò in questo contesto: la vittoria elettorale delle sinistre, le lotte contadine, l’estromissione dal governo nazionale di Pci e Psi. Morirono undici persone, donne e bambini. Un avvertimento contro le sinistre. La mia opinione è sempre stata la stessa: Giuliano era un esecutore, il mandante andava cercato nel blocco agrario e nel suo intreccio politico. Bisognava bloccare il movimento delle terre prima delle elezioni politiche del 1948 in cui si sarebbero stabiliti i rapporti di forza dell’Italia repubblicana. Alla vigilia del voto del 18 aprile il sindacalista della Cgil Placido Rizzotto fu fatto sparire a Corleone. Lo conoscevo bene. I carabinieri inizialmente scrissero nel loro rapporto che era stato ucciso per la sua attività sindacale, tra loro c’era il giovane capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi cambiarono idea e indicarono motivi familiari e personali. Tutto questo anticipò il 18 aprile in Sicilia. Le destre e la mafia traslocarono in blocco nella Dc e né De Gasperi, né Moro, né Fanfani diranno una parola su questa convergenza. Alessi, persona perbene, ammise in un’intervista: dovevano fermare il comunismo a ogni costo. Era meglio governare con i mafiosi o con i nipotini di Stalin? Andreotti lo chiamò un rapporto di quieto vivere. Nel 1950 Giuliano fu ucciso da Pisciotta, Pisciotta fu poi eliminato con un caffè avvelenato. Lo Stato aveva dato un ruolo statale alla mafia: distruggere il banditismo. La mafia lo fece e divenne una parte importante con cui convivere».
La Sicilia ha rappresentato un laboratorio nazionale, con la giunta del dc Silvio Milazzo votata dal Pci di cui lei era segretario regionale.
«La svolta politica fu preceduta dalla spaccatura tra Sicindustria e la Confindustria nazionale. Insieme con la Cgil regionale nel 1955 gli industriali siciliani proposero una legge regionale sull’industrializzazione della Sicilia. Per sostenerla venne a Palermo, al teatro Massimo, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che era stato eletto al Quirinale anche con i voti comunisti. Nel 1958 l’Assemblea elesse il democristiano Silvio Milazzo, contro la Dc nazionale. Fanfani gli spedì un telegramma: dimettiti subito. Ma Milazzo restò al suo posto e fece una giunta con comunisti, socialisti, monarchici, un missino cui chiese di giurare sulla Costituzione antifascista. Togliatti mi convocò a Roma: “Sei sicuro di non esserti messo in un cul de sac”? Milazzo sciolse i consorzi di bonifica controllati dal boss Genco Russo, era un cattolico sturziano, in piazza Politeama a Palermo andarono ad ascoltarlo 50mila persone. Uscì dalla Dc e fondò un partito cristiano-sociale, segretario era Francesco Pignatone, cattolicissimo, mio caro amico, padre del procuratore di Roma Giuseppe. Aveva contro il patto anti-comunista, la coalizione tra Dc e destre. Per buttarlo giù si mossero i servizi segreti e gli esattori, i cugini Salvo, che comprarono quattro deputati. Fu il generale Giovanni De Lorenzo a dirmelo alla Camera: “Milazzo è caduto ad opera del Sifar”».
Il milazzismo si sviluppò poi nel patto tra Dc e Pci, il consociativismo anni ’70 con la Dc di Lima e Ciancimino?
«No. Il milazzismo era un fenomeno siciliano che andava in controtendenza con la politica nazionale. L’accordo con la Dc di Achille Occhetto, segretario regionale del Pci negli anni ’70, era invece la traduzione siciliana della linea del compromesso storico di Enrico Berlinguer. In regione c’era la Dc del rinnovamento guidata dal moroteo Piersanti Mattarella, figlio di Bernardo, fratello di Sergio: personalità forte, un leader. L’interlocutore di Occhetto era il segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti. Il milazzismo era la reazione della Sicilia all’esclusione dal miracolo economico del Nord, quella di Mattarella era una rivoluzione dall’alto per strappare la Dc dal condizionamento della mafia. Un tentativo disperato che finì tragicamente: Mattarella assassinato, Nicoletti suicida. Poi c’è stata la caduta».
Leonardo Sciascia nel libro con Marcelle Padovani diceva che la Sicilia è una metafora: di cosa?
«La Sicilia ha anticipato la crisi della politica italiana, in modo drammatico: da un lato lo stragismo mafioso negli anni ’80-’90, con la lotta alla mafia che non è più affidata ai partiti, ai sindacati, al popolo, ma ai giudici, alle procure, dall’altro presidenti di regione come Salvatore Cuffaro e Raffaele Lombardo, nella stagione del 61 a zero di Berlusconi, quando la destra conquistò tutti i collegi elettorali dell’isola. Cuffaro, ex dc e uomo di Calogero Mannino, ha interpretato un modo d’essere funzionale alla crisi della politica nazionale. Non c’è più autonomia, c’è l’uso della regione per l’organizzazione del potere, e nulla più».
Cuffaro dice che ora i suoi voti sono tutti nel partito erede della sinistra, nel Pd...
«L’attuale presidente Rosario Crocetta, ex comunista in confusione, doveva rompere tutto questo. Sul piano personale non è compromesso, ma sul piano politico è stato assorbito dal sistema. Gira a vuoto, non riesce a modificare un sistema che consuma le risorse nel finanziare le forze che tengono in piedi la macchina della regione. E non c’è un modo di ridare senso all’autonomismo».
È mai arrivata la rottamazione in Sicilia?
«Figuriamoci se Renzi è in grado di capire la Sicilia! Per ora si è limitato a indicare il suo uomo nell’isola, Davide Faraone. Ma non esiste una partecipazione di popolo e intellettuali, è tutto dentro il minestrone dell’Assemblea regionale in cui si fanno e si disfano le alleanze. Fuori c’è vita: di recente ho fatto una passeggiata a Castellammare sul Golfo e a Scopello. Non ci andavo da anni, ho trovato tanti giovani e molte speranze. Ma tutto lontano dalla politica. E per me, che alla politica ho dedicato la vita, non è un motivo di conforto». n