J’accuse

Saviano: "Ora su Gomorra chiudono gli occhi"

di Marco Damilano   5 maggio 2016

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Dieci anni dopo l’uscita del suo libro-simbolo, in questa intervista lo scrittore denuncia: “Chi racconta la realtà viene considerato disfattista. Ieri una comunità mi proteggeva, oggi mi sento totalmente solo. Ma non mi arrendo alla politica"

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"Non lasciamo solo Roberto Saviano!" Il primo a gridarlo fu Umberto Eco dopo che l’“Espresso” aveva rivelato le minacce dei casalesi contro il giovane scrittore. Era il 14 ottobre 2006, “Gomorra” era uscito tra aprile e maggio. «Era stato stampato in 4500 copie, a settembre era già a centomila. Ricordo la mail della Mondadori: “Roberto, da oggi sei uno scrittore di professione”. Ricordo l’emozione. Ricordo la telefonata maledetta che faccio a mio fratello: “Possiamo comprarci la moto”. Non l’abbiamo mai ritirata e abbiamo dovuto restituire l’anticipo. Il giorno del mio compleanno, il 22 settembre, vado a Casal di Principe, accuso Antonio Iovine e Michele Zagaria: “Questa non è la vostra terra, andatevene!”. Per loro è una bomba nucleare, non era mai successo. Avevo fottutamente 26 anni».

Sono passati dieci anni dalla pubblicazione di quel libro che ha cambiato il racconto delle mafie e l’interpretazione del rapporto tra letteratura e realtà. E la vita del suo autore. In coincidenza, il 9 maggio parte su Sky la seconda serie della fiction nata da Saviano, un successo internazionale. Dieci anni dopo «il Sistema si è allargato, ringiovanito». E di nuovo si confrontano due modi di narrare l’Italia: quello dello storytelling del potere che nasconde le zone oscure e quello che ti costringe a guardare in faccia il male. A occhi aperti.
 

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“Gomorra” si apre con una frase di Hannah Arendt: «Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà». Cos’è cambiato in questi anni? 
«Prima di “Gomorra” sulla camorra c’erano i testi di Francesco Barbagallo e Isaia Sales, ma la percezione era di un fenomeno locale, minoritario rispetto a Cosa Nostra, con un’unica luce accesa su Raffaele Cutolo dal libro di Jo Marrazzo e dal film di Giuseppe Tornatore. Dopo la vicenda di Enzo Tortora nessuno credeva più alle inchieste della procura di Napoli. I casalesi si definivano imprenditori. Quando nel ‘94 fu ucciso dai clan don Peppe Diana lo calunniarono, dissero che era a letto con due donne. La camorra era una realtà raccontata, ma misconosciuta, da cronaca locale. Nei giornali per cui iniziavo a collaborare mi dicevano: “Se consegni in ritardo ti occuperai sempre di camorra”. Ma io volevo capire cosa fossero queste organizzazioni, il loro potere economico, il loro linguaggio. Per farlo ho pagato un prezzo inaspettato. Chi racconta il male viene trattato peggio di chi il male lo fa, lo scriveva Leopardi due secoli fa».

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Avevi previsto di scatenare questa reazione?
«Non pensavo di innescare l’odio, volevo accendere un’attenzione dell’opinione pubblica. E avevo un’ambizione letteraria. Vedevo una storia che la letteratura poteva affrontare. A farli impazzire è stato il successo. Se fossi stato chi sono ora non mi avrebbero minacciato, non conveniva. Ma dieci anni fa ero nessuno, ero un ragazzino da spezzare. Un pagliaccio, disse di me Schiavone. Un romanziere. Uno che si inventa una finzione. Per lui, una spazzatura d’uomo».

«Camorra è una parola inesistente, usata da magistrati, giornalisti, sceneggiatori», dicevi. Perché ora scrivi fiction?
«Con la fiction posso raccontare i meccanismi, mettendo dentro tutto ciò che di solito non interessa. Come si organizza una piazza di spaccio. Come si prepara un’esecuzione. Come si truccano le elezioni con la scheda ballerina. È la forza delle serie tv. Ti spiegano cose. “House of Cards” ti fa vedere come la politica nelle democrazie non possa prescindere dal cinismo, dalla corruzione, dalla manipolazione dei media. “Mr. Robot” ti racconta gli hacker. Ti fa capire che oggi se hai un volto e un nome potranno infangarti, usare i tuoi difetti contro di te. Puoi ribellarti solo se sei anonimo e invisibile».

«Saviano scrive in prima persona, ma il suo io è sommesso, privo di compiacimento. Sembra quasi che si scusi di usarlo», scrisse Corrado Staiano sull’“Unità”, tra i primi a recensirti. Poi però sei stato costretto a gettare il tuo io nella battaglia. 
«Non ambivo a diventare un simbolo dell’antimafia, volevo essere uno scrittore, senza mediazioni tra me e il lettore. Mettere la faccia mi ha aiutato, poi mi sono accorto che attaccavano non quel che ero, ma quel che rappresentavo».

In “Gomorra” cercavi Pier Paolo Pasolini, il tuo «Palazzo da far saltare in aria»: «Inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, con la sola lama della scrittura». Serve ancora il racconto civile? O è finito, come la politica, il giornalismo e tutto il resto?
«Oggi Pasolini non avrebbe nessuna possibilità di scrivere sui grandi giornali, sarebbe delegittimato subito, distrutto sui social network. Quel ruolo va ancora svolto, ma con un sacrificio personale fortissimo. Lo scrittore corsaro deve sapere che pagherà prezzi importanti. E che non potrà vivere la sua purezza, dovrà compromettersi. Significa andare nei teatri o in tv, negoziare il senso di pudore con la necessità di arrivare a molte persone. Non puoi trasformare la realtà parlando solo ai lovers e non incrociando mai gli haters. Non puoi scrivere solo libri per iniziati, giornali per iniziati, non entrare mai in un territorio non amico».
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Leonardo Sciascia rivelò di aver odiato “Il giorno della civetta” quando si accorse che il consenso del pubblico andava al capomafia Mariano Arena. Ti è capitato di provare questo sentimento per Ciro l’Immortale di “Gomorra”: sexy, spietato, vincente?
«Nella fiction non c’è il bene, non ci sono vie di fuga per lo spettatore. Ma non c’è neanche il fascino. Ciro è un figlio di puttana che brucia le ragazze. I personaggi di “Gomorra” si sporcano sempre».

Il sindaco di Napoli De Magistris ti ha accusato di esaltare solo il brutto. E Renzi ripete che dell’Italia si deve raccontare il positivo, contro «il disfattismo». Parola che allude alla guerra.
«Infatti fu usata contro i socialisti Turati e Kuliscioff che si opponevano al macello della prima guerra mondiale. Non immagini il dolore che mi ha generato Renzi quando in Campania ha detto: “Non lasciamo che il racconto di questa terra sia solo il set di Gomorra”. Ma quando io faccio questo racconto sto cercando di salvare quella terra. Renzi ripete che si può parlare male di lui ma non dell’Italia: è una frase pericolosa, con echi inevitabilmente autoritari. Se io racconto una cosa che non va, sto facendo male all’Italia o bene? Il Paese coincide con il suo governo? Renzi mi ha trattato come faceva Berlusconi. Far passare i critici per disfattisti è gravissimo. Contrapporre l’Italia del sì a quella del no è un atteggiamento continuo di sfida, perdente. De Magistris è nemico di Renzi, ma in questo è identico. Parlare delle paranze non significa ignorare la bellezza del San Carlo o i Caravaggio. Per De Magistris era tutto negativo quando c’era Bassolino, ora che è al potere c’è lui dice l’opposto, che bisogna parlare bene di Napoli. È una bugia, una mistificazione».

Dopo l’inchiesta in cui è indagato l’ex presidente del Pd campano Stefano Graziano, hai parlato di una resa della politica: perché? 
«Perché vedo che Renzi sta perdendo questa sfida. Non ha saputo trasformare la classe dirigente meridionale. Ci sono figure nel Pd che potevano costruire un partito diverso, ma non sono state messe in campo perché avrebbero perso. Non so come finirà l’inchiesta, ma penso che Graziano avesse bisogno di tanti voti, subito. Forse li poteva recuperare, ma con un lavoro sul territorio di anni. Se vuoi i voti subito devi fare lo scambio, non c’è alternativa. Ecco perché l’alleanza con Vincenzo De Luca che non c’entra nulla con il dna di Renzi, come in Calabria e in Sicilia. Renzi si è affidato a persone che possono portargli pacchetti di voti, in sostanza voti di scambio. E nei voti di scambio, prima o poi, può capitare di inciampare nei voti di mafia. Per questo mi pare che Renzi del Sud non abbia capito nulla. Dopo il quaranta per cento alle europee ha smesso di crescere, ha perso il rapporto con la società civile che aveva, non ha più ascoltato nessuno, si è chiuso nel cerchio magico, errore madornale. Per questo vuole Marco Carrai consulente ai servizi. Se lo avesse fatto Berlusconi ci sarebbero stati i cortei, l’intellighenzia si sarebbe schierata. Invece teniamo la vicenda nelle nostre rubriche, ma non c’è indignazione».

Cos’è cambiato?
«C’è una grande forza che sostiene Renzi. Puoi criticare per ore il governo e poi sentirti dire: giusto, ma vuoi dare il Paese a Salvini? O a Grillo? Questo è cambiato in noi».

Finito l’anti-berlusconismo, ti senti più o meno solo?
«Totalmente più solo. Prima sapevi che c’era una comunità, un meccanismo di protezione. Oggi la mia solitudine è immensa. Oggi se prendi una posizione fortemente critica con il governo imbarazzi molte persone».

Il “Sistema” è più forte o più debole in questi dieci anni?
«I casalesi sono andati a pezzi. Ma il Sistema si è allargato e si è ringiovanito. I capi napoletani hanno vent’anni».

E “Gomorra” ha vinto o ha perso?
«I meccanismi sono tornati identici, in Italia e in Europa. Ma “Gomorra” ha vinto perché dal libro è partita un’energia fortissima. Dal Messico al Sudafrica sono nati nuovi narratori».

In questi dieci anni è morta l’antimafia?
«È morta quando è diventata un’anticamera della politica. E di mafia non si parla più in Italia, in Europa dove interi quartieri hanno coperto i terroristi come se fossero loro figli, non si parla in Messico, ormai un narco-Stato, dove ho polemizzato con il presidente Peña Nieto. Anche Sanders negli Usa non usa mai la parola riciclaggio».

Perché non credi più alla giustizia?
«Ho sentito dire in un’aula: Iovine assolto, Bidognetti assolto. Lì la mia esperienza di ingiustizia è stata colma. Ora, come scrive Vasilij Grossman in “Vita e destino”, valuto la bontà, persona per persona. Non guardo più alla politica con speranza, ma con analisi. Weber diceva che la politica è potere, il punto è come lo usi. Uno dei grandi errori dei 5 Stelle è pensare di sfuggire a questa regola. E invece gli intellettuali, i giornali devono tornare alle idee. Pensiamo a un nuovo percorso. Non arrendiamoci a una politica spot. Il mio scopo resta non avere paura della complessità. Continuerò a scrivere libri e fiction con questo obiettivo».

Ti stai ripensando? Senti l’esigenza di prendere le distanze da te stesso, dal personaggio che ti hanno cucito addosso?
«L’ho sentita e continuo a sentirla. Anzi, la cosa più dolorosa è stata sentirmi complice della costruzione di questo personaggio. A Casal di Principe mi dissero: t’amm fatt il cappotto di legno, ti abbiamo messo nella bara, senza ucciderti. Avevano ragione. Dieci anni di scorta, dieci su trentasei con un esercito addosso, da impazzire. Cerco quotidianamente di allontanare da me l’aura del martirio. Ma se sono triste dicono che sono depresso. E quando sorrido scrivono che me la godo. Se sei vivo sei un fake, non puoi farci nulla. Se mi dovesse succedere qualcosa chi mi ha attaccato parlerebbe di me come un eroe. Sono contento che non possa farlo».

Il motivo è nell’ultima pagina di “Gomorra”. Lì sei felice.
«Sì, quando Steve McQueen in “Papillon” scappa, si tuffa in mare. E grida: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”»