È caduto il muro di Varese. Dopo 23 anni la Lega non comanda più nella città simbolo del potere lumbard, patria di Umberto Bossi e di Roberto Maroni. Vince Davide Galimberti, il candidato del Pd, un avvocato di 39 anni che alle primarie del centrosinistra aveva battuto l'esperto parlamentare Daniele Marantelli, forte dei favori del pronostico e di quelli della segreteria del partito di Matteo Renzi. Esce invece sconfitto al ballottaggio l'imprenditore Paolo Orrigoni, volto nuovo del centrodestra, un uomo senza tessera di partito che però era stato corteggiato e infine scelto dai vertici della Lega, da Maroni in persona.
Alla vigilia del ballottaggio pochi, anche tra i suoi sostenitori, avrebbero scommesso sulla rimonta di Galimberti che al primo turno aveva raccolto il 41,9 per cento dei voti contro il 47,1 di Orrigoni. Proprio Maroni subisce qui a Varese la sconfitta forse più bruciante della sua carriera. Il governatore della Lombardia, già ministro degli Interni nei governi Berlusconi, si era speso personalmente in campagna elettorale addirittura convocando a Varese una riunione della giunta lombarda e poi candidandosi personalmente come capolista. «Qui è nata la Lega, qui c’è il cuore della Lega, da qui passa la nostra grande vittoria», aveva scandito Maroni in un comìzio varesino in aprile. Pronostico clamorosamente sbagliato.
I numeri raccontano che Galimberti alla fine ha prevalso di 1.200 voti conquistando il 51,8 per cento dei consensi. Nell'arco di due settimane il candidato di Maroni ha perso per strada oltre mille sostenitori, mentre Galimberti ha raccolto oltre 2 mila voti in più rispetto al cinque giugno. Decisivo è stato quindi l'astensionismo, che al ballottaggio è aumentato di cinque punti percentuali (i votanti sono scesi dal 55 al 50 per cento). E forte è stato anche l'impatto dei sostenitori della lista civica di Stefano Malerba (forte del 7 per cento al primo turno), che hanno in gran parte dirottato i loro voti sul candidato Pd.
Per Varese i risultati di ieri rappresentano una svolta storica. Correva l'anno 1993 quando sulle macerie ancora fumanti della Prima repubblica, il leghista Raimondo Fassa conquistava la poltrona di primo cittadino. Da allora il partito di Bossi prima, e poi di Maroni e Salvini, era sempre riuscito a far eleggere un suo rappresentante a capo della giunta cittadina.
Adesso i risultati delle urne confermano una sensazione molto diffusa in città: quasi un quarto di secolo di potere incontrastato ha fiaccato il movimento lumbard che si è appiattito sulla gestione dell'esistente, delle clientele locali, primo tra tutti il partito del cemento e della rendita. In campagna elettorale Orrigoni ha usato toni pacati, lontani dallo stile urlato alla Salvini. Ha cercato di rassicurare l'elettorato, ma non è evidentemente riuscito a mobilitarlo. Al primo turno la Lega non è andata oltre il 16 per cento, minimo storico in città, e Forza Italia si è fermata addirittura all'11 per cento. E ieri, al ballottaggio, centinaia di sostenitori del centrodestra non hanno confermato il voto di due settimane prima, disertando le urne. Peraltro, dati alla mano, Orrigoni sarebbe uscito sconfitto anche se avessericevuto lo stesso numero di voti del 5 giugno. Decisivi, quindi, sono stati nuovi consensi affluiti ieri verso il candidato del centrosinistra.
Alla fine, quindi, perfino in una città tradizionalmente descritta come ricca, apatica e ripiegata su stessa, hanno prevalso le forze del cambiamento. Il paradosso è che qui, nel profondo Nord, il nuovo prende forma con il Pd renziano, proprio quando nel resto del Paese il capo del governo subisce la sua sconfitta più bruciante.