Cinque Stelle e Pd, doppio assalto al governo Renzi
Conquistate Roma e Torino, il Movimento prepara la strategia per prendere Palazzo Chigi. Ma il premier deve guardarsi pure dalle manovre ?di chi nel Pd e nella maggioranza vuole modificare l’Italicum. Anche a costo di cambiare governo
La conquista del Campidoglio avviene in stile anglosassone, senza le feste, i cortei (e i saluti romani) che accompagnarono la vittoria di Gianni Alemanno nel 2008. «È stata una scelta di sobrietà», spiega Alessandro Di Battista, il deputato romano, volto mediatico del Movimento 5 Stelle, il primo a puntare sulla candidatura dell’avvocato Virginia Raggi.
Ora che la sconosciuta consigliera comunale è diventata la prima donna sindaco della bimillenaria storia di Roma con oltre il 67 per cento dei voti, conquistando le aperture di tutta la stampa internazionale, il movimento nato dal Vaffa-day di Beppe Grillo nel 2007 sceglie la strada istituzionale. Passaggio di consegne, presentazione della giunta, attesa della prima seduta del consiglio comunale.
L’anticipo delle prossime mosse: presa Roma, espugnata a sorpresa Torino con Chiara Appendino che ha sconfitto Piero Fassino, ora parte la lunga marcia per arrivare al governo. «Matteo Renzi è il nostro nemico, mai c’è stato un premier detestato quanto lui. Neppure Berlusconi lo è stato», avverte Di Battista, mentre nell’aula di Montecitorio torna a presiedere Roberto Giachetti, il candidato del Pd travolto dallo tsunami Raggi. «Ora si riparte. Sarò nel Sud, per la campagna sul no al referendum, in difesa della Costituzione».
Per Renzi è un doppio assalto. Quello del M5S è un attacco atteso, anche se la vittoria alle elezioni comunali non era prevista dal premier in queste proporzioni. Ma l’assedio più insidioso per l’ex sindaco di Firenze arriva dall’interno. Dal Partito democratico, e non solo dalla minoranza di Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo o dall’ira vendicativa di Massimo D’Alema, scontate le loro bordate dopo un risultato elettorale così negativo, ma anche dagli occasionali sostenitori del segretario, tutti con Bersani nel 2013, tutti con Renzi un anno dopo. Dentro la maggioranza, con i partitini centristi in subbuglio, inesistenti o quasi nelle preferenze elettorali ma numerosi in Parlamento e nel governo.
In Europa, dove la narrazione dell’unico politico continentale che ha in tasca la ricetta per fermare i partiti populisti ha incontrato una pesante smentita. E tra le istituzioni di garanzia, dov’è già scattato l’allarme per l’indebolimento politico del governo, ma anche per la determinazione del premier a non voler cambiare strada rispetto all’agenda fissata mesi fa: il referendum sulla riforma costituzionale previsto per autunno trasformato in un voto pro o contro Renzi.
Una scommessa che i risultati di Roma, Torino e Napoli ora trasformano in un azzardo. E in molti consigliano a Renzi di cambiare atteggiamento, meno arroganza e più dialogo. E, in modo ancor più radicale, di tornare indietro sulla scelta più importante, quella su cui ruota tutta la sua strategia: la nuova legge elettorale Italicum che con il premio di maggioranza di 340 seggi consegna al vincitore delle elezioni l’intera posta in gioco, la possibilità di governare un’intera legislatura senza allearsi con nessuno. Perché la legge prevede che il premio scatti per la lista (o il partito) che supera il 40 per cento dei voti al primo turno o che vince il ballottaggio al secondo turno. Niente coalizioni, nessuna intesa con altri partiti, né larga né piccola.
La legge, votata un anno fa dal Parlamento, entrerà ufficialmente in vigore tra una settimana, venerdì primo luglio. Ma dopo il trionfo di Raggi e Appendino rischia di nascere già morta, di non entrare mai in vigore. Sembrava una legge fatta su misura per Renzi e tale fu considerata al momento dell’approvazione dagli oppositori, a partire dal Movimento 5 Stelle. Il sindaco d’Italia eletto dal voto popolare, con un sistema simile a quello delle elezioni nei Comuni, l’introduzione di un presidenzialismo di fatto con il premier eletto al riparo dalle manovre del Palazzo.
Uno scenario che il voto amministrativo ha cambiato radicalmente. Il Pd di Renzi, a differenza delle previsioni, nel secondo turno ha faticato a intercettare il voto dei moderati e degli indecisi. Mentre M5S fa il pieno: al secondo turno ha vinto in 19 casi su 20, non solo a Roma e a Torino. E la possibilità che l’Italicum si trasformi in un clamoroso boomerang, che consegni il governo del Paese a Luigi Di Maio e a un governo a 5 Stelle non è più una possibilità remota. Per Renzi assomiglia a un incubo.
Come gli ripetono in questi giorni i compagni di partito. «Con l’Italicum il Pd non vince, questo è il messaggio che arriva da queste elezioni», si rifà vivo dopo un lungo silenzio l’ex ministro Giuseppe Fioroni, democristiano di lungo corso. «Per due anni abbiamo pensato che Matteo fosse senza alternative, invece l’alternativa è nata e dobbiamo tenerne conto». I fedelissimi non vogliono neppure sentirne parlare. «L’Italicum non si tocca. Alle elezioni nazionali non vale il voto a dispetto, vinceremo noi», si dice sicuro il super-renziano Dario Parrini, segretario regionale della Toscana, reduce da un voto amministrativo in cui ha perso in terra rossa tutte le tradizionali roccaforti, da Montevarchi a Sesto Fiorentino.
Il cambiamento dell’Italicum è il nuovo mantra trasversale, dentro e fuori il Pd. Ne hanno bisogno i centristi di Angelino Alfano, per sopravvivere alle prossime elezioni. E lo reclama anche Forza Italia, per liberarsi dalla necessità di allearsi con la Lega di Matteo Salvini. Antonio Tajani, in corsa per essere eletto presidente del Parlamento europeo, il primo italiano dai tempi di Emilio Colombo, ha spiegato che i popolari tedeschi di Angela Merkel non daranno mai il via libera all’esponente di un partito che in Italia è alleato con i compagni di strada di Marine Le Pen. Mentre la modifica dell’Italicum aprirebbe la possibilità alla formazione di un nuovo partito di centro con dentro Berlusconi, Alfano, Denis Verdini e le altre schegge pronte ad allearsi con il Pd di Renzi. Nel Pd chiede il cambio dell’Italicum la minoranza interna, ma anche D’Alema e lo sconfitto Fassino, finora sostenitore del premier.
Renzi non cambierà la legge elettorale da lui scritta. Ma c’è un’altra possibilità. Che l’Italicum sia cancellato da una sentenza della Corte costituzionale, così come avvenne con il Porcellum nel dicembre 2013. C’è un ricorso sulla cui ammissibilità la Consulta sarà chiamata a pronunciarsi il 4 ottobre, all’indomani del referendum sulla Costituzione (si dovrebbe votare il 2 ottobre). La tempesta perfetta: la vittoria del no al referendum costringerebbe Renzi a dimettersi, così come da lui annunciato più volte. Ma anche la vittoria del sì potrebbe essere seguita da un voto negativo dei giudici costituzionali sull’Italicum. Tutto da rifare.
«Sarebbe una scelta saggia», ci spera Fioroni. «Il ritorno alla proporzionale pura, le preferenze, le alleanze che si fanno in Parlamento. Certo, per Matteo c’è da pagare il prezzo di non poter dire agli italiani la sera delle elezioni, come dice lui, chi ha vinto e chi ha perso. Con una proporzionale il vincitore lo sapremo un anno dopo, forse mai... Sempre meglio che dover spiegare quella sera che un vincitore c’è stato: gli altri! Il Movimento 5 Stelle».
Per questo, in un clamoroso rovesciamento delle parti, nelle prossime settimane la legge elettorale voluta da Renzi è destinata a essere bombardata dagli amici e alleati del premier e a essere difesa, a sorpresa, dai suoi principali avversari: i competitori di 5 Stelle. «L’hanno votato, adesso se la vedano loro, per noi la vicenda è chiusa», dice Danilo Toninelli, il deputato M5S addetto alle questioni istituzionali.
Di Battista è più esplicito: «Gli italiani non vogliono sentir parlare di legge elettorale, ma di sanità, casa, lavoro. L’ultima cosa da fare è dedicare tutta l’estate a parlare di quote di sbarramento e di premi di maggioranza». M5S non parteciperà alle manovre per cambiare l’Italicum. Di più: anche in caso di sconfitta al referendum di ottobre Di Maio e i suoi non chiederanno le dimissioni del premier. Sembra un’inattesa sponda per il nemico Renzi, ma è un altro tassello della strategia per mandarlo a casa, con il voto, quando arriverà. Serve tempo, bisogna continuare ad accreditarsi sul piano internazionale e intanto puntare sul logoramento del governo Renzi.
Il vero assedio per l’ex sindaco di Firenze, la strategia della spallata, è tutto concentrato nel Pd e nella maggioranza. «Far vincere M5S a Roma, per poi far saltare l’Italicum, per poi buttare giù Renzi», era la road map che nel Pd e tra i centristi della maggioranza qualcuno già prevedeva in autunno, quando Ignazio Marino fu cacciato dal Campidoglio e apparve chiaro che Virginia Raggi aveva buone possibilità di vincere le elezioni amministrative. La prima tappa si è realizzata. Ora ci sono gli altri due passaggi. E la lunga estate di Renzi potrebbe trasformarsi in qualcosa di drammaticamente vicino a quello che fu l’agosto del 2011 per il governo di Silvio Berlusconi. Il tramonto del Cavaliere cominciò con la sconfitta alle amministrative a Milano, contro Giuliano Pisapia.
Seguì l’assalto della speculazione e la crescita vertiginosa dello spread. Oggi Renzi si sente al riparo da un attacco dei mercati, anche se qualche avvertimento è arrivato. E dalla Banca centrale europea guidata da Mario Draghi risuona una parola antica: memorandum. «Uno strumento da tenere nel cassetto, da mostrare solo se la situazione precipitasse», si leggeva sul “Corriere” il 17 giugno, alla vigilia del voto amministrativo. Solo un fantasma, certo, ma il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è affrettato a precisare che non c’è alcun allarme sui conti pubblici, neppure in una situazione di instabilità politica europea che va dall’Inghilterra alla Spagna che torna al voto e all’Italia del Movimento 5 Stelle che conquista la Capitale.
Né si vede una riserva in grado di assumere la guida del governo in caso di emergenza, l’operazione del governo tecnico di Mario Monti fu lungamente preparata da Giorgio Napolitano nei mesi dell’agonia politica di Berlusconi. Ma se il referendum dovesse andare male o la Consulta dovesse correggere anche in una parte non decisiva l’Italicum il Parlamento dovrebbe mettersi al lavoro per scrivere una nuova legge elettorale. E mentre il Parlamento lavora un nuovo governo di transizione. Nel Palazzo girano già i nomi di chi potrebbe presiederlo: Padoan oppure l’attivissimo ministro della Cultura Dario Franceschini, legato da sempre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Con Renzi sulle barricate. In compagnia dei carissimi nemici: il Movimento 5 Stelle.