Parla il giornalista francese di origine araba che si è finto soldato di Allah. E racconta dall’interno chi sono i giovani europei fanatizzati dallo Stato islamico. Come quello che ha sgozzato padre Jacques

Ancora la Francia bersaglio dei fanatici dello Stato islamico. Che stavolta alzano il tiro, sgozzano sull’altare della chiesa a Saint-Etienne du Rouvray, in Normandia, vicino a Rouen, il parroco, padre Jacques Hamel, 84 anni, filmano l’esecuzione e lanciano proclami in arabo dal pulpito prima di essere abbattuti dagli uomini delle forze speciali. Uno dei terroristi, Adel Kermiche, 19 anni, era noto ai servizi per aver tentato di raggiungere la Siria ed era in libertà vigilata col braccialetto elettronico. Cosa che non gli ha impedito di portare a termine l’azione. Riattivando, dopo Nizza, le polemiche sulla sicurezza che hanno come bersaglio il presidente della Repubblica François Hollande, il primo ministro Manuel Valls, il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve.

Adel Kermiche, un ragazzo catturato nella rete del jihadismo, affascinato dal radicalismo nichilista del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Come altri 1500 francesi di origine araba partiti per il Medio Oriente o rimasti per spargere il terrore in patria. Alcuni dei quali il pubblico ha conosciuto grazie al documentario “Les soldats d’Allah”, andato in onda su Canal+, e girato da un infiltrato in una cellula francese dello Stato islamico che racconta, per l’“Espresso”, tutti i retroscena della sua pericolosa esperienza.

Si fa chiamare Said Ramzi, ma è uno pseudonimo, perché la sua identità, per intuibili motivi, deve rimanere segreta. È musulmano, ha 29 anni ed è un giornalista francese di origine araba. Per quattro mesi, con una telecamera nascosta, ha filmato l’intera evoluzione del gruppo, fino alla preparazione di un attentato, immortalando un miscuglio di ossessioni morbose e pulsioni suicidarie.

«All’inizio», racconta Said, «ho girato una quantità incredibile di moschee, in particolare quelle frequentate dai salafiti (scuola di pensiero islamica tradizionalista) soprattutto nel sud della Francia. Ho parlato con tantissimi di loro, senza successo. Molto rapidamente ho capito che i salafiti, in realtà, collaborano attivamente con i servizi francesi. In più di una moschea mi hanno detto che il loro imam incontrava regolarmente gli agenti della Direction Générale de la Sécurité Intérieure». Nonostante il primo ministro francese Manuel Valls dichiari che il salafismo «può portare all’islam radicale e al terrorismo» e che «il secondo si nutre del primo».

Comunque sia, l’odio tra i salafiti francesi e i militanti dello Stato Islamico è tale da permettere a Said di stringere i primi contatti. «Quando incontravo quelli di Daesh (acronimo arabo per lo Stato islamico) su Facebook», confessa Said, «gli dicevo che i salafiti non smettevano di cancellarmi gli account, di denunciarmi, e così via. Criticando i salafiti sono riuscito a farmi accettare da quelli dell’Is».

Su Facebook, Said incontra un ragazzo che si fa chiamare “Abou Oussama”. Ha vent’anni e abita a Chateauroux, nel centro della Francia. Oussama era stato arrestato qualche anno prima mentre cercava di recarsi in Siria. Un ragazzo orgoglioso, tanto da rendere noto a Said il suo dossier giudiziario. «C’erano tutte le dichiarazioni che aveva rilasciato alla DGSI dopo l’arresto», ricorda Said. «Diceva che era d’accordo con Daesh, che voleva sgozzare i miscredenti, uccidere dei militari. Diceva tutto ciò, apertamente, a degli agenti di polizia!».

Oussama viene da una famiglia modesta, ma non poverissima. Non è cresciuto nelle cités, i palazzoni delle periferie francesi. Suo padre è originario della Turchia e fa il muratore, sua madre è francese. Quando era più giovane, Oussama aveva provato a entrare nell’esercito ma era stato respinto. Secondo il padre il punto di non ritorno è stato proprio il rifiuto dei reclutatori dell’Armée. Un profilo che secondo Said è molto comune, tra i vari militanti dell’Is che ha incontrato. All’origine, c’è sempre «un rifiuto della società verso i giovani musulmani o arabi che è molto difficile da accettare», afferma. Un rifiuto tanto più inaccettabile quanto più assume forme endemiche. «Quando lavoravo in un call-center, per esempio, mi chiedevano di cambiare nome, io avevo deciso di chiamarmi Paul».

In più, dichiarando alle autorità le sue professioni di fede, Oussama si era condannato a una vita ancora più dura. «Piano piano, tutte le porte si erano chiuse attorno a lui», ricostruisce Said. Tra regime di sorveglianza stretta, obbligo di firma e fedina penale bruciata, «ormai per lui era finita. Gli avevano preso la vita a vent’anni. La sola chance per uscirne, nella sua testa, era il paradiso dei martiri di Allah».

«Quando lo incontro, Oussama è terribilmente solo. All’inizio mi parla del paradiso, di cose piuttosto folli, in particolare riguardo alle donne, ricorda il giornalista. «Afferma che uccideremo dei francesi e che prenderemo le loro donne come schiave» Said gli domanda se secondo lui sia giusto avere degli schiavi. Oussama risponde che è un loro diritto, «e aggiunge che grazie a noi, diventeranno musulmane e accederanno al paradiso».
Il rapporto col sesso femminile è un tema che ha incrociato in continuazione nel corso dell’inchiesta. «Sono rimasti bloccati a quello stadio là, quando sei adolescente e hai voglia di avere tutte le donne per te». I militanti dello Stato Islamico che ha conosciuto «sono delle persone che hanno visto dei film porno e si sono immaginati al posto dell’attore protagonista. Quando Daesh ha promesso loro che avrebbero avuto tutto ciò nella forma del paradiso prêt-à-porter affollato di vergini, o “houri” è stato un successo immediato».

A detta di Said, «la religione per loro è solo un pretesto. Se ne fregano alla grande, della religione. Te lo dicono anche, senza rendersene conto. Se credono in Allah, è solo perché Allah gli ha promesso le vergini. E basta. Credono di rispettare la religione, ma non hanno né rispetto, né religione».

Più il gruppo di Oussama si allarga, più Said vi si inoltra, più emergono l’assenza di sensibilità religiosa o politica e - al contrario - una certa morbosità dei militanti. «Una volta Oussama ha cominciato a parlarmi delle vergini del paradiso, con gli occhi persi nel vuoto. E ha concluso che quella sera sarebbe stato da solo in camera sua, mentre avrebbe potuto essere in paradiso con le famose vergini se, armato di coltello, avesse assaltato un commissariato quello stesso giorno». Oussama gli propone a più riprese di attaccare con dei coltelli una caserma di polizia. «Riuscivo sempre a convincerlo di non farlo, per fortuna».

La volontà di lanciarsi in attacchi estemporanei denota la mancanza di una qualsiasi strategia. «Quando ne hai una», riflette Said, «è perché in qualche modo aspiri a cambiare il mondo, nel bene o nel male. Quelli di Daesh non hanno alcuna intenzione di cambiare il mondo. Se ne strafregano, del mondo. Fanno tutto solo ed esclusivamente per sé stessi, per le loro vergini. In qualche modo, sono la quintessenza dell’ultra-liberismo. Sono dei mercenari, in fondo».

«Nei gruppi online», assicura Said, «si scambiano le foto dei vestiti di marca, è tutto un Nike di qua, un Gucci di là, sognano di macchine di lusso…». I loro riferimenti culturali sono quelli del consumo all’ingrosso e all’ingrasso tipici dei videoclip delle star del rap francese. Una cultura e uno stile teoricamente rifiutati in toto e, tuttavia, ampiamente riprodotti: un altro paradosso dei “soldati di Allah.”

Nondimeno, l’antinomia forse più intrigante è che l’immaginario dello Stato Islamico non seduce solamente gli uomini. Durante l’inchiesta, Said ha potuto incontrare molte ragazze, per lo più minorenni. Quelli dello Stato islamico «hanno cercato di farmi sposare quattro volte in quattro mesi», dice l’infiltrato. Gli incontri avvenivano sempre via Internet. «Una di loro mi ha chiesto di diventare il suo walîy (il suo “tutore”).” Ogni volta che la ragazza doveva recarsi a un appuntamento, «mi chiedeva l’autorizzazione via messaggio».

Altri militanti dovevano portarla in Siria, racconta Said, ma alla fine lei non si è unita a loro. Quando gli agenti di polizia li hanno fermati alla frontiera, hanno trovato un passaporto falso con la sua foto. «L’ultimo messaggio che mi ha mandato è stato quello in cui mi chiedeva se poteva recarsi dal giudice. Le ho detto di si. Non ho mai più avuto notizie. Aveva solo 17 anni».
L’esplosivo miscuglio di dilettantismo e disperazione conosce, a un certo punto, una drammatica evoluzione. «Presto o tardi avrei dovuto allertare la polizia», afferma Said. «Quello che mi ha “salvato” è stato l’arrivo di un altro militante di Daesh, proveniente da Raqqa», la capitale dello Stato Islamico in Siria.
La sua identità rimane a oggi un mistero. L’uomo non si mostra, ma dirige, tramite Oussama, le attività della cellula, che nel frattempo era arrivata a coinvolgere una decina di persone. L’uomo venuto da Raqqa intima di avere pazienza e contatta Said. Tramite interposta persona gli fa pervenire delle lettere nelle quali invoca determinazione per «uccidere i miscredenti». L’ultima missiva per Said contiene una lista della spesa di ingredienti utili a fabbricare una bomba.
Gli obiettivi cominciano a profilarsi: i militanti parlano di colpire una discoteca, siti militari o redazioni tv. «Quando mi ha detto che tra gli obiettivi c’erano anche i giornalisti», ricorda Said, «mi sono detto, “putain! io sono giornalista” e sono seduto di fianco a loro con una telecamera nascosta. È la pericolosità di questa inchiesta, in ogni istante avrei potuto prendermi una coltellata. Altre inchieste sono altrettanto pericolose; ma qui si tratta di gente la cui motivazione profonda è l’omicidio».

Per la cellula jihadista in formazione, gli attentati del 13 novembre scorso, il Bataclan e le terrazze di Parigi, sono un incoraggiamento. Nonostante gli arresti a cascata in tutto il Paese, il gruppo accelera la ricerca di armi. Intanto, i radar dei servizi devono aver percepito qualcosa, perché a fine dicembre una serie di arresti mette fine alle operazioni. Oussama è arrestato per ultimo, il 27 dicembre 2015, a casa di suo padre.
Said prova allora a dirigersi verso un altro gruppo, per i cui membri s’inventa un altro nome. Ma il trucco non funziona e, dopo una serie di velate minacce sul tema della decapitazione, pochi giorni dopo, un altro militante dello Stato islamico gli scrive: “T’es cuit, mec”, “sei bruciato”». È li che si ferma l’inchiesta.

Comprendere la presenza dello Stato islamico in Europa significa, secondo Said, capire che «Daesh ha molti più legami con la pornografia e con il suicidio che con l’Islam. Anzi, è riconducibile proprio all’alleanza diabolica tra queste due nozioni». E l’unica cosa che si può opporre, dice, «è la creazione di legami sociali, fare in modo che ci sia meno esclusione».

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