Matteo Renzi è equivicino, direbbe Giulio Andreotti, forse il politico a cui più il premier dal passato democristiano vorrebbe assomigliare almeno per le sottili strategie in politica estera. Vasto e ambizioso programma. Certo a differenza del divo Giulio si confronta con un mondo dove nuotare è oggettivamente meno facile. E più alto il pericolo di scottarsi tra guerre reali (e non fredde...) alle porte, l’incubo terrorismo, interessi nazionali diversificati e spesso difficili da difendere quando non tutto dipende da Roma ma bisogna passare sotto le forche caudine di Bruxelles. L’ex sindaco di Firenze aveva esordito con una postura un po’ guascona sulla scena internazionale, lontana dai metodi felpati di un Mario Monti o di un Enrico Letta, ma anche dall’irriverenza eversiva di un Silvio Berlusconi.
Col tempo ha corretto i toni pur senza rinunciare a un protagonismo che per il Paese «è un bene» nel giudizio dell’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, già rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea e oggi presidente dell’Istituto affari internazionali. Che la politica estera dipenda soprattutto da palazzo Chigi e la Farnesina sia stata esautorata su alcuni dossier è del resto una tendenza planetaria, in un’epoca di personalizzazione estrema della politica (i francesi la chiamano “pipolizzazione”).
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Si tratti di incitare gli azzurri alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, anche con sms invadenti a ridosso delle gare, o di discutere con Angela Merkel di rigore e flessibilità in economia, Matteo c’è. Talvolta porta a casa il risultato, altre cade in vista del traguardo, altre ancora rinuncia con studiato calcolo alla competizione quando è troppo complicato schierarsi. Per un bilancio in chiaroscuro che contempla vittorie, sconfitte e pareggi, come capita nella vita di ogni agonista che non sia superman.Valutato su una scala che oltrepassa il confine di Chiasso, il giudizio su Renzi si scosta dalla percezione popolare in patria dove la sua stella è data in caduta e dove ha perso il tocco magico del mitologico 41 per cento per ancorarsi a un realismo un po’ più oggettivo perché non sconta i brontolii della pancia di un Paese costretto a tirare la cinghia da almeno nove lunghi anni. Nove, due in più delle carestie bibliche.
EUROPA
Pancia significa economia, ancora la priorità degli italiani assieme alla sicurezza. Dunque Bruxelles. Dove certo gli obbligazionisti delle banche in difficoltà o fallite avrebbero preteso la revisione totale del bail-in, gli aiuti di Stato e un rientro completo dei propri risparmi evaporati. Ma abbiamo ceduto una quota di sovranità, non abbiamo una moneta, il debito pubblico pesa come il macigno di Sisifo. Quando ci presentiamo ai vertici siamo ancora l’Italietta della crescita debole o assente, la maestra di Berlino arriva con la proverbiale bacchetta. Non aiutarono Renzi gli esordi spacconi che in Belgio ancora ricordano perché bisogna pur misurare i rapporti di forza come insegna la storia romana di Orazi e Curiazi. Da quando si è corretto, qualche apertura è arrivata, hanno cominciato a tornare familiari nell’Unone europea parole fuori moda come flessibilità, crescita e sviluppo. Ancora non è sufficiente, certo.
Ma è il segno che è cambiata l’aria, «l’agenda è stata modificata», per usare il linguaggio di un diplomatico di lungo corso nel Vecchio Continente. E, analisi che non piacerà ai vari Salvini, «la pietas dimostrata con il soccorso in mare dei profughi ci sta dando una larga dose di credibilità», nel giudizio di un ambasciatore esperto come Giuseppe Cassini. Una credibilità non ancora trasformata in moneta corrente se la disponibilità dei nostri partner a distribuire equamente gli arrivi dei migranti è un’intenzione rimasta sulla carta. La famosa “solidarietà europea” una lettera morta mentre l’invito esplicito ai Paesi del Sud che sono fronte suona come un beffardo: «Arrangiatevi». Sulla questione epocale delle migrazioni bibliche l’Europa si farà o morirà come è chiaro a tutti. In questo caso i nostri “valori” coincidono esattamente con l’interesse nazionale. E rivive il motto: italiani brava gente.
Siccome ogni evento rappresenta un’opportunità o un limite, la Brexit può essere per il premier motivo di rilancio. Lo sfiatato asse franco-tedesco aveva bisogno di una triangolazione con Londra per dirimere le controversie, ruolo che potrebbe occupare Roma, novella invitata ai balli che contano. Su questo, giudizio sospeso. Vedremo come e se saliremo sulla giostra fin dal summit Renzi-Merkel-Hollande annunciato nella simbolica Ventotene per il 22 agosto.
GUERRE
Matteo Renzi le rifugge, sono la ragione più immediata per perdere consenso. Chi può essere a favore della guerra? Però talvolta sono necessarie. Si tratta di valutare, caso per caso, se un intervento armato riduce o aumenta il danno. Cullati dall’illusione della pace perpetua, scegliamo d’istinto la fuga. Finché la guerra entra in casa. Presi per la collottola da obblighi di coalizione ci rifugiamo nei distinguo. Diamo le basi e concediamo il sorvolo dello spazio aereo, ma non bombardiamo. Diamo gli aerei ma solo per i rifornimenti. Niente soldati sul terreno ma istruttori per eserciti-taxi che facciano il lavoro in nostra vece. Oppure truppe speciali per missioni indicibili, però segrete eh. La chiamano ipocrisia necessaria. In puro stile, qui sì, andreottiano. Funziona per la Libia dove il retaggio coloniale da un lato e le esigenze dell’Eni dall’altro disegnano un sentiero stretto per la diplomazia. Acquisiamo benemerenze in Iraq coi carabinieri ad addestrare le forze di polizia e i militari a istruire i peshmerga curdi in vista dell’auspicato attacco su Mosul per sradicare lo Stato islamico. Siamo meno generosi in Siria, fucina di tanti profughi che poi si riversano sulle nostre coste. Spesso profughi acculturati, professionisti, gente della classe media che non a caso la Merkel si è presa in casa con calcolo contemporaneamente umanitario e utilitaristico. Il Mediterraneo largo è “mare nostrum” mai come ora. Non si capisce cosa restiamo a fare, tra gli ultimi, in Afghanistan, nella remota Herat sotto l’influenza sciita, dunque iraniana, se non per compiacere Barack Obama e rabbonirlo dopo i nostri “no” sulla Libia, in una missione ormai svuotata di qualunque significato pratico.
È ben evidente invece perché siamo, da dieci anni ormai, dai tempi di Massimo D’Alema alla Farnesina, in Libano, nel vero capolavoro della nostra politica estera, il conflitto con Israele raffreddato se non sedato. È vero che Hezbollah ha nel frattempo riempito i suoi arsenali sotto i nostri occhi, come non potrebbe, però non li usa. Più in generale, e da tempo, sono i soldati i nostri migliori ambasciatori, da tutti richiesti in ogni angolo del pianeta. Fino a registrare una carenza negli organici per via dei fisiologici ricambi. E qui Renzi si scontra con la coperta troppo corta delle casse esangui e delle esigenze di bilancio. Spendiamo per la Difesa, come sottolinea l’ex capo di Stato maggiore Vincenzo Camporini, lo 0,8 per cento del Pil, se si sommano gli investimenti del Ministero dello sviluppo economico valichiamo la fatidica quota dell’ 1 per cento quando la Nato chiederebbe agli Stati membri come minimo il doppio. E i troppi fronti aperti, anche interni, ci obbligherebbero a rivedere al rialzo il nostro sforzo in un mondo sempre più disordinato.
DITTATORI E SIMILI
Matteo Renzi dovrà rassegnarsi al fatto che gli sarà sempre rimproverato di essere stato il primo a correre al Cairo per legittimare il governo liberticida del generale Abd al-Fattah al Sisi. Di più. Di essere stato debole quando sono state evidenti le colpe del suo regime nell’omicidio del ricercatore universitario Giulio Regeni. Né possono servire da scusanti, in questo caso, gli affari dell’Eni davanti alle torture inflitte a un cittadino italiano, col sovraccarico delle beffe dovute alle bugie sulle indagini, ai depistaggi, alle prese in giro di colui che era stato catalogato sotto la voce “amico”. L’Egitto ha un interesse pari se non superiore al nostro nello sfruttamento del giacimento al largo delle sue coste e ha bisogno della nostra tecnologia. Trattare su un livello almeno paritario dovrebbe essere lo scopo di una nazione che ha l’obiettivo di farsi rispettare. Né può essere un alibi la constatazione che i militari al Cairo sono gli unici a poter garantire gli accordi di Camp David e dunque la (parziale) sicurezza di Israele. Lo Stato ebraico è l’altra spina nel fianco della nostra diplomazia. Siamo passati dal sostanziale filoarabismo dell’epoca andreottiana (sempre lui) a un’adesione acritica a tutte le esigenze di Israele, persino ora che quella democrazia mostra una preoccupante involuzione. La svolta fu voluta dal governo Berlusconi. Renzi non ha fatto nulla per correggere il tiro.
E, spostandosi di un braccio di mare. Se non si può definire tecnicamente una dittatura quella del turco Erdogan perché è stato regolarmente eletto, il suo controgolpe con derive che possono arrivare persino alla reintroduzione della pena di morte, avrebbe meritato una presa di posizione assai più netta contro il sultano e la sua politica neo-ottomana. Renzi ha alzato la voce solo quando Erdogan ha attaccato i giudici di Bologna “rei” di aver aperto un’inchiesta contro suo figlio: un po’ poco.
AFRICA SUBSAHARIANA
È un pallino dell’inquilino di Palazzo Chigi che ama citare il suo attivismo nell’area come un fiore all’occhiello della sua permanenza al potere. Peccato che a tanto sforzo non corrispondano altrettanti risultati. Fare politica estera con le casse vuote sarebbe un problema per chiunque. Se va dato atto a Renzi di aver aumentato i fondi per la Cooperazione allo sviluppo, siamo tuttavia assai lontani dalle cifre (vedi tabella a fianco) di quando potevamo esercitare un vero lobbysmo come all’epoca, anni Novanta, dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci che poteva sventare un tentativo di riforma del Consiglio di Sicurezza architettata ai nostri danni grazie ai voti dei Paesi del Terzo mondo che suonavano come un ringraziamento.
ONU
La sconfitta più cocente del premier resta comunque quella subita al Palazzo di Vetro. Un misto di improvvisazione e di mancata valutazione dei rapporti di forza. La richiesta di un seggio nel Consiglio di Sicurezza risaliva al 2009, a Berlusconi. Ed era piuttosto velleitaria visto che avevamo occupato quella poltrona nel 2007-2008. Ci siamo esposti quando già avevano avanzato la loro candidatura la Svezia e l’Olanda. Ancora Giuseppe Cassini tra il serio e il faceto: «Abbiamo sottovalutato la lobby gay svedese, forte a New York fin dai tempi in cui fu segretario generale Dag Hammarskjöld». Stoccolma ci ha largamente battuti e con Amsterdam abbiamo raggiunto un compromesso che ci salvasse (solo in parte) la faccia: un anno ciascuno. Quando eravamo convinti di avercela fatta. Potevamo, dovevamo, ritirarci. Per tutte le altre cancellerie era chiaro che sarebbe finita così. Non a Roma dove nessuno ha avuto il coraggio di spiegare a Renzi come stavano le cose. Ecco di cosa avrebbe (anche) bisogno il premier per costruirsi una figura da statista: di qualcuno attorno che non lo voglia solo compiacere. Ma gli dica la verità.