Attualità
31 agosto, 2016L’8 agosto il dipartimento pari opportunità pubblica l’elenco degli enti che avranno il contributo pubblico per combattere lo sfruttamento sessuale. Restano escluse sei regioni e le onlus insorgono: «A rischio l’assistenza». La replica del direttore che cura gli interventi di contrasto a Palazzo Chigi: «Con i nuovi criteri 500 posti in più»
Il pasticcio dei servizi anti-tratta per combattere la prostituzione in strada
Girano di notte e di giorno. Distribuiscono preservativi e informazioni. Le accompagnano negli ambulatori. E quando le prostitute decidono di ribellarsi ai loro aguzzini le accolgono in «case di fuga». È il servizio anti-tratta messo in piedi da enti locali e onlus italiane che da quindici anni è adottato e copiato in tutta Europa.
Dal primo settembre rischia però un’interruzione. La causa scatenante un bando del dipartimento pari opportunità guidato dal ministro Maria Elena Boschi che cerca di mettere ordine tra le competenze e fondi a pioggia.
Con una spada di Damocle: le ragazze che vorranno sottrarsi alla rete criminale che le obbliga a prostituirsi rischiano di non trovare nessuno disposto ad aiutarle in Sardegna, Basilicata, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e in alcune zone della Sicilia Orientale.
Le associazioni e le onlus di questi territori sono state escluse dal bando del governo che ha stanziato 13 milioni e premia quindici realtà della lista, tra cui Regioni che si fanno capofila dei progetti e singole associazioni.
Per tutta risposta gli «esclusi» hanno alzato la voce: «Tutti gli enti finanziati hanno avuto riconosciuto il massimo del budget richiesto. Non si poteva finanziare solo una quota, come negli anni scorsi, e così ricavare risorse anche per gli altri progetti? In questo modo si poteva dare continuità a tutti, senza dover chiudere dei servizi attivi da anni e che nessuno rileverà».
E poi puntano il dito contro i nuovi criteri di valutazione «inadeguati» e il premio a progetti senza tenere minimamente conto della storia e dell’esperienza maturata dagli enti attuatori nel passato. Come per un qualsiasi bando «basta scrivere un bel progetto per essere finanziati?» si chiedono.
L’associazione studi giuridici ha preso carta e penna e scritto direttamente al ministro Boschi. «In Sicilia, territorio fortemente sensibile al fenomeno per evidenti ragioni, risulta essere stato finanziato uno solo progetti con conseguente mancanza di copertura di interi territori si pensi ad esempio alle zone limitrofe al centro di Mineo», sottolinea il presidente di Asgi Lorenzo Trucco.
A rispondere al j’accuse è Michele Palma, direttore dell’ufficio di Palazzo Chigi che cura gli interventi in materia di contrasto alla tratta: «Le onlus erano abituate a considerarci come uno sportello bancomat, adottando una prassi sbagliata: si facevano le graduatorie alzando e abbassando l’asticella dei fondi per far rientrare tutti. Ora abbiamo adottato un modello rigoroso e il risultato sono 500 posti in più del passato».
E i territori con i servizi a rischio di «smantellamento»? «I territori devono essere “coperti” dalle Regioni con un sistema proprio», continua Palma: «Ma finora tutti gli enti regionali erano abituati ad essere finanziati a pioggia, con costi duplicati. Nessuna zona rimarrà però esclusa: abbiamo trovato un altro milione e cinquecentomila euro per finanziare tutti i progetti. E come estrema ratio il trasferimento ad altri servizi simili. Non ci saranno donne vittime di tratta abbandonate».
La cifra - 13 milioni di euro - è stata decisa per dare continuità fino a gennaio 2018, quando i bandi finiscono e si «stabilizza» il sistema con un servizio permanente. Perché dalla fine degli anni Novanta, quando sono nati i servizi anti-tratta, si è sempre andati avanti proroga dopo proroga.
Con tanto lavoro affidato al volontariato, poca trasparenza e pochi fondi per contrastare l’arrivo di minorenni, caricate sui barconi per farsi merce del sesso in Europa, nascoste dentro agli sbarchi e poi nella burocrazia dell’accoglienza.
Come raccontò “l’Espresso” lo scorso giugno dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra donne e minori non accompagnati direttamente dalla Nigeria. Oltre cinquemila sono donne nigeriane arrivate nei primi sette mesi del 2016, la comunità più numerosa. Donne che rischiano di passare dalle province africane alle strade e piazzole italiane.
IL CASO SCUOLA DEL PIAM
Nell’elenco ministeriale non ci sono né la Regione Liguria né il vicino Piemonte. Non ammesse per negligenza: la prima ha consegnato il progetto in ritardo e la seconda incompleto per un terzo.
Il governatore piemontese Sergio Chiamparino potrebbe correre ai ripari e non fermare il servizio mettendoci 800 mila euro di fondi propri. Qui dai primi anni duemila ha fatto scuola il Progetto integrazione accoglienza migranti (Piam) di Asti.
«Tre volte alla settimana giriamo tra Asti ed Alessandria. Centinaia di chilometri, segnalazioni e lavoro in strada. Duro, durissimo per conquistarsi la fiducia e cercare di sottrarle alla rete di sfruttatori. Riusciamo a contattarne 1500 ogni anno: tantissime sono nigeriane ma anche transessuali dall’America latina, e poi donne italiane, romene, bulgare e albanesi», racconta Alberto Mossino del Piam.
Il lavoro dopo il primo contatto è la distribuzione di preservativi, informazioni sanitarie prevenzioni delle malattie sessualmente trasmissibili. Grazie ai protocolli con le Asl locali hanno anche una corsia preferenziale con accesso diretto con mediatrici e personale medico.
E poi quando le donne ridotte in schiavitù e sottoposte a violenze quotidiane decidono di scappare vengono accolte e protette nella «casa di fuga», appartamenti protetti dove ripartire grazie ai documenti, scuola di italiano, formazione professionale ed inserimento lavorativo. Si ritrovano in piccoli gruppi sotto lo stesso, spesso in compagnia dei propri figli.
«Eravamo i primi in Europa per protezione e la nostra attività consolidata. Invece oggi sembra un concorso a premi: non si smantella così un servizio. Come li paghiamo i dipendenti? E quando una prostituta scappa e si rivolge a noi dove la mettiamo?» si interroga sconsolato Alberto Mossino.
MENO DEL COSTO DI UN MALATO DI AIDS
Ecco come funziona: con l’unità di strada un’equipe mista di operatori sociali e mediatrici culturali va in giro a contattare le donne che si prostituiscono distribuendo preservativi e informazioni sanitarie. Lo scopo è quello di prevenire le infezioni sessualmente trasmissibili (soprattutto l’Hiv, ma non solo) e convincere le donne ad adottare pratiche di sesso sicuro e a recarsi agli ambulatori delle Asl per effettuare i controlli sanitari.
In questo modo si tutela la salute delle sex workers ma anche quella dei clienti e delle loro mogli o compagne. Un intervento di prevenzione che ha una ricaduta su tutta la popolazione.
Utile, utilissimo. Quanto costa? Tra personale, preservativi distribuiti e carburante in un anno il costo medio inferiore a 17 mila euro. Per capire i costi/benefici per l’intero sistema sanitario basta un semplice confronto con un paziente sieropositivo.
Nel caso non abbia sviluppato altre patologie (caso molto frequente) costa ad ogni Asl circa 1.400 euro al mese di mantenimento farmacologico, per tutta la vita. Se poi l'infezione si aggrava, i costi e le cure aumentano notevolmente.
Quindi se in un anno anche solo un preservativo distribuito per strada è servito ad evitare un contagio, significa risparmiare circa 16.800 euro. Più o meno il costo dell’intera attività di unità di strada.
Dal primo settembre rischia però un’interruzione. La causa scatenante un bando del dipartimento pari opportunità guidato dal ministro Maria Elena Boschi che cerca di mettere ordine tra le competenze e fondi a pioggia.
Con una spada di Damocle: le ragazze che vorranno sottrarsi alla rete criminale che le obbliga a prostituirsi rischiano di non trovare nessuno disposto ad aiutarle in Sardegna, Basilicata, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e in alcune zone della Sicilia Orientale.
Le associazioni e le onlus di questi territori sono state escluse dal bando del governo che ha stanziato 13 milioni e premia quindici realtà della lista, tra cui Regioni che si fanno capofila dei progetti e singole associazioni.
Per tutta risposta gli «esclusi» hanno alzato la voce: «Tutti gli enti finanziati hanno avuto riconosciuto il massimo del budget richiesto. Non si poteva finanziare solo una quota, come negli anni scorsi, e così ricavare risorse anche per gli altri progetti? In questo modo si poteva dare continuità a tutti, senza dover chiudere dei servizi attivi da anni e che nessuno rileverà».
E poi puntano il dito contro i nuovi criteri di valutazione «inadeguati» e il premio a progetti senza tenere minimamente conto della storia e dell’esperienza maturata dagli enti attuatori nel passato. Come per un qualsiasi bando «basta scrivere un bel progetto per essere finanziati?» si chiedono.
L’associazione studi giuridici ha preso carta e penna e scritto direttamente al ministro Boschi. «In Sicilia, territorio fortemente sensibile al fenomeno per evidenti ragioni, risulta essere stato finanziato uno solo progetti con conseguente mancanza di copertura di interi territori si pensi ad esempio alle zone limitrofe al centro di Mineo», sottolinea il presidente di Asgi Lorenzo Trucco.
A rispondere al j’accuse è Michele Palma, direttore dell’ufficio di Palazzo Chigi che cura gli interventi in materia di contrasto alla tratta: «Le onlus erano abituate a considerarci come uno sportello bancomat, adottando una prassi sbagliata: si facevano le graduatorie alzando e abbassando l’asticella dei fondi per far rientrare tutti. Ora abbiamo adottato un modello rigoroso e il risultato sono 500 posti in più del passato».
E i territori con i servizi a rischio di «smantellamento»? «I territori devono essere “coperti” dalle Regioni con un sistema proprio», continua Palma: «Ma finora tutti gli enti regionali erano abituati ad essere finanziati a pioggia, con costi duplicati. Nessuna zona rimarrà però esclusa: abbiamo trovato un altro milione e cinquecentomila euro per finanziare tutti i progetti. E come estrema ratio il trasferimento ad altri servizi simili. Non ci saranno donne vittime di tratta abbandonate».
La cifra - 13 milioni di euro - è stata decisa per dare continuità fino a gennaio 2018, quando i bandi finiscono e si «stabilizza» il sistema con un servizio permanente. Perché dalla fine degli anni Novanta, quando sono nati i servizi anti-tratta, si è sempre andati avanti proroga dopo proroga.
Con tanto lavoro affidato al volontariato, poca trasparenza e pochi fondi per contrastare l’arrivo di minorenni, caricate sui barconi per farsi merce del sesso in Europa, nascoste dentro agli sbarchi e poi nella burocrazia dell’accoglienza.
Come raccontò “l’Espresso” lo scorso giugno dal 2015 a fine maggio sono arrivate 8.600 persone tra donne e minori non accompagnati direttamente dalla Nigeria. Oltre cinquemila sono donne nigeriane arrivate nei primi sette mesi del 2016, la comunità più numerosa. Donne che rischiano di passare dalle province africane alle strade e piazzole italiane.
IL CASO SCUOLA DEL PIAM
Nell’elenco ministeriale non ci sono né la Regione Liguria né il vicino Piemonte. Non ammesse per negligenza: la prima ha consegnato il progetto in ritardo e la seconda incompleto per un terzo.
Il governatore piemontese Sergio Chiamparino potrebbe correre ai ripari e non fermare il servizio mettendoci 800 mila euro di fondi propri. Qui dai primi anni duemila ha fatto scuola il Progetto integrazione accoglienza migranti (Piam) di Asti.
«Tre volte alla settimana giriamo tra Asti ed Alessandria. Centinaia di chilometri, segnalazioni e lavoro in strada. Duro, durissimo per conquistarsi la fiducia e cercare di sottrarle alla rete di sfruttatori. Riusciamo a contattarne 1500 ogni anno: tantissime sono nigeriane ma anche transessuali dall’America latina, e poi donne italiane, romene, bulgare e albanesi», racconta Alberto Mossino del Piam.
Il lavoro dopo il primo contatto è la distribuzione di preservativi, informazioni sanitarie prevenzioni delle malattie sessualmente trasmissibili. Grazie ai protocolli con le Asl locali hanno anche una corsia preferenziale con accesso diretto con mediatrici e personale medico.
E poi quando le donne ridotte in schiavitù e sottoposte a violenze quotidiane decidono di scappare vengono accolte e protette nella «casa di fuga», appartamenti protetti dove ripartire grazie ai documenti, scuola di italiano, formazione professionale ed inserimento lavorativo. Si ritrovano in piccoli gruppi sotto lo stesso, spesso in compagnia dei propri figli.
«Eravamo i primi in Europa per protezione e la nostra attività consolidata. Invece oggi sembra un concorso a premi: non si smantella così un servizio. Come li paghiamo i dipendenti? E quando una prostituta scappa e si rivolge a noi dove la mettiamo?» si interroga sconsolato Alberto Mossino.
MENO DEL COSTO DI UN MALATO DI AIDS
Ecco come funziona: con l’unità di strada un’equipe mista di operatori sociali e mediatrici culturali va in giro a contattare le donne che si prostituiscono distribuendo preservativi e informazioni sanitarie. Lo scopo è quello di prevenire le infezioni sessualmente trasmissibili (soprattutto l’Hiv, ma non solo) e convincere le donne ad adottare pratiche di sesso sicuro e a recarsi agli ambulatori delle Asl per effettuare i controlli sanitari.
In questo modo si tutela la salute delle sex workers ma anche quella dei clienti e delle loro mogli o compagne. Un intervento di prevenzione che ha una ricaduta su tutta la popolazione.
Utile, utilissimo. Quanto costa? Tra personale, preservativi distribuiti e carburante in un anno il costo medio inferiore a 17 mila euro. Per capire i costi/benefici per l’intero sistema sanitario basta un semplice confronto con un paziente sieropositivo.
Nel caso non abbia sviluppato altre patologie (caso molto frequente) costa ad ogni Asl circa 1.400 euro al mese di mantenimento farmacologico, per tutta la vita. Se poi l'infezione si aggrava, i costi e le cure aumentano notevolmente.
Quindi se in un anno anche solo un preservativo distribuito per strada è servito ad evitare un contagio, significa risparmiare circa 16.800 euro. Più o meno il costo dell’intera attività di unità di strada.
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