Annamaria Arlotta, fondatrice di una pagina Facebook contro la pubblicità sessista con migliaia di iscritti: «Mi sono resa conto della situazione italiana solo dopo aver vissuto per anni in Inghilterra. Ma oggi anche qui sta cambiando qualcosa, l'importante è continuare a protestare»

«Fatti il capo» recitava qualche anno fa la réclame di un famoso amaro. Sempre anni or sono, a dire il vero non tantissimi, sui cartelloni pubblicitari di una linea di traghetti per la Sicilia una scritta rivendicava orgogliosamente, sullo sfondo di un gruppo di ragazze fotografate di spalle mentre si imbarcano: «Abbiamo le poppe più famose d'Italia». Sono solo due esempi tra migliaia di pubblicità sessiste, che portano avanti stereotipi e modelli discriminanti, relegando le donne a ruoli secondari, decorativi o iper sessualizzati. Una tendenza nella quale l'Italia vanta un triste primato. Non esistono dati recenti sul fenomeno, ma basti citare il rapporto Onu sulla violenza di genere nel nostro paese redatto nel 2012 da Rashida Manjoo: «Con riferimento alla rappresentazione delle donne nei media, nel 2006 il 53 per cento delle donne comparse in TV era muta; il 46  associata a temi inerenti al sesso, alla moda e alla bellezza; solo il 2 per cento a temi sociali e professionali».
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Annamaria Arlotta si batte da anni per sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema. Fondatrice e amministratrice della pagina Facebook “La pubblicità sessista offende tutti, ad oggi quasi 7 mila iscritti, racconta all'Espresso: «L'idea di aprire un gruppo mi è venuta qualche anno fa. Ero da poco tornata in Italia dopo aver vissuto alcuni anni in Inghilterra e ho notato subito che la pubblicità qui era completamente diversa da come la ricordavo nel Regno Unito, dove allusioni sessuali e doppi sensi sono quasi inesistenti. All'inizio pensavo che fosse una differenza dovuta al puritanesimo britannico, che fossimo noi quelli più “liberali”. Ma mi sono presto resa conto che era semplicemente una questione di rispetto. Nelle pubblicità italiane la donna è ridotta sempre e unicamente al corpo e al fattore seduttivo. E questo, aldilà della volgarità di molti spot, fa passare il messaggio sbagliato che solo le donne giovani e belle hanno valore. Le altre praticamente non esistono».
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Una pagina alla quale «sono iscritti anche molti uomini, oltre a personaggi del mondo della cultura», tiene a sottolineare Arlotta, e «dove chiunque può segnalare una pubblicità offensiva. La segnalazione viene poi girata allo Iap, l'Istituto di autodisciplina pubblicitaria. Se, per esempio, si tratta di un cartellone di una piccola ditta che contiene elementi volgari – prosegue Arlotta – di solito grazie all'intervento dello Iap nell'arco di due settimane la pubblicità viene eliminata». All'istituto di autodisciplina aderisce liberamente circa «il novanta per cento delle aziende» ma è evidente che non tutte hanno lo stesso peso e di conseguenza lo Iap non dimostra sempre la stessa severità. Tuttavia, spiega ancora Annamaria Arlotta, qualcosa sembra stia cambiando: «Ultimamente ci sono segni incoraggiati. In alcuni casi, dopo le forti proteste delle persone sui social, l'istituto di autodisciplina è intervenuto anche contro grandi multinazionali».

Le pubblicità sessiste più diffuse sono quelle «che fanno leva sul richiamo sessuale, abbinando un'immagine provocante a un prodotto. Si cerca di fare una specie di transfert dall'impulso sessuale a quello all'acquisto. Ma questa non è la sola forma di sessismo. Esiste anche la tendenza a far diventare la donna stessa parte del prodotto, o a usare il suo corpo come un supporto: c'è la donna che diventa di plastilina, o quella che è un vassoio per il sushi o la base per un paralume. A volte viene marchiata con un logo. Sono tutte cose che non accadono con il corpo maschile».

E poi c'è il problema degli stereotipi di genere, forse l'aspetto più difficile da combattere ma anche quello più pericoloso. Non a caso «La Spagna, per ora unica in Europa, ha varato una legge contro la pubblicità sessista all'interno di un pacchetto di norme contro la violenza sulle donne. Negli spot italiani quando compaiono personaggi di entrambi i sessi l'uomo è mostrato nell'atto di lavorare, mentre la donna è raffigurata mentre chatta, fa shopping, guarda film». Secondo la fondatrice di “La pubblicità sessista offende tutti” ai personaggi femminili sono quasi sempre legate «attività superficiali, quando non stupide. A volte la donna è mostrata come isterica mentre l'uomo è sempre serio, posato. Un esempio recente di pubblicità che veicola stereotipi è quello dello spot di una nota marca di pannolini, in cui il bambino era raffigurato come un piccolo esploratore e la bambina come una vanitosa civettuola. Qualche mese fa, ancora, il caso della pubblicità di una marca di succhi di frutta: dopo aver bevuto il maschietto diventava un piccolo Einstein mentre la bambina una stilista di moda. Ma dopo le proteste le pubblicità sono state modificate».

«Spesso le aziende ci rispondono con cortesia, non so quanto autentica, scusandosi e “ringraziandoci” della segnalazione. A volte invece riceviamo un'obiezione tipica, cioè che noi “non capiamo l'ironia”. In effetti no, non capiamo cosa ci sia di ironico nell'immagine di due hamburger al posto dei seni». Determinate si rivela il ruolo di aplificatori dei social network e le proteste stanno portando, anche se lentamente, a un cambio di atteggiamento: «Sono fiduciosa per il futuro, ho notato che quasi sempre dopo che una pubblicità è stata bollata come sessista, le aziende cambiano completamente registro. Non so se perché davvero comprendano che è sbagliato oppure solo per non essere seccati dalle “femministe”, come veniamo spesso erroneamente definite. L'importante è continuare a vigilare, perché è il numero di proteste a fare la differenza. Non abbiamo dati aggiornati purtroppo, ma l'Easa (European Advertising Standards Alliance), un organismo di vigilanza europeo, nel 2006 pubblicò alcune cifre illuminanti. In quell'anno solo in Inghilterra ci furono 1650 segnalazioni. In Italia zero. Oggi non è più così».